Si andrà quindi a mettere mano alla legge sulle adozioni, la 184 del 1983, “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”. La Commissione Giustizia della Camera ha avviato una indagine conoscitiva e solo lì sono pronte da esaminare 7 proposte di legge per modificare la legge, già assegnate alla Commissione. Altre sono state depositate in Senato. Alcune sono di questi giorni, altre giacciono lì da mesi. «Le priorità sono molteplici: mantenere il massimo delle tutele per i minori, facilitare le coppie pronte all’accoglienza, adeguare la legislazione ai cambiamenti intervenuti in ambito familiare, accompagnare i percorsi post-adottivi. Se davvero si vuole mantenere prioritario l’interesse del minore è arrivato il momento di snellire l’iter dei procedimenti adottivi per poter estendere gli affidi e l’adozione», ha detto Vanna Iori, segretaria della Commissione Giustizia, responsabile infanzia per il Pd e docente ordinaria di Pedagogia all’Università Cattolica di Milano. Questi sono i temi all’ordine del giorno secondo la politica, – riassumibili nello slogan «più adozioni per tutti» (o «più diritti per tutti», come dice l’onorevole Iori) – e anche per i giornali generalisti, che nelle ultime settimane si sono buttati sul tema: basti pensare che il Corriere della Sera ci ha fatto due articoli in quindici giorni, mettendo in campo una firma prestigiosa come Margerita De Bac (che pure, sigh, scrive sempre “il” Cai quando si riferisce alla Commissione Adozioni Internazionali).

Nel “pacchetto” della riforma c’è però un tema che non viene mai citato. Forse perché è meno “appealing”, forse perché è troppo tecnico rispetto al dire “apriamo le adozioni a single e coppie omosessuali” o “semplifichiamo le procedure”. Forse perché l’affido nel discorso comune è un po’ il “fratello minore” dell’adozione, tant’è che in molti ancora se li confondono. Eppure la legge 184 è una legge che disciplina entrambi – adozione e affidamento dei minori. Eppure i minori in affido sono più di 14mila, contro le mille adozioni nazionali e le 2mila circa internazionali concluse nel 2014. Noi torniamo quindi a ragionare di affido e di affidi sine die, per capire se e come nell’imminente dibattito sulla 184 c’è spazio anche per questo. Il programma dell’indagine conoscitiva in realtà parla anche di adozione mite, come terzo punto su cui focalizzarsi:

  • «esaminare la giurisprudenza di costituzionalità e di legittimità ed in particolare quelle sentenze che hanno affrontato la materia delle adozioni risolvendo gravi dubbi interpretativi determinati dalla normativa vigente»;
  • «apportare modifiche non solo nella parte relativa alla semplificazione del procedimento di adozione, ma anche nella parte in cui sono disciplinati i requisiti richiesti per adottare»;
  • riflettere sulla «cosiddetta adozione mite: non può essere l’affidamento l’istituto da applicare nel caso in cui la capacità genitoriale della famiglia di origine risulta irrecuperabile, ma la famiglia di origine ha mantenuto un significativo legame affettivo con il figlio, in quanto l’affidamento non può comunque proseguire a tempo indefinito e occorre che una nuova famiglia accolga definitivamente il minore come figlio proprio».

Noi abbiamo cercato Giuseppe Spadaro, presidente del tribunale per i minorenni di Bologna, nelle ultime settimane sotto i riflettori della cronaca per via della sentenza della Corte Costituzionale sul caso di Eleonora e sua moglie Liz.

L’affido è per definizione uno strumento temporaneo ma secondo alcuni dati in Italia almeno il 60% degli affidi è sine die. Alcuni esperti, come Marco Chistolini (qui l’intervista) affermano che è persino un dato sottostimato poiché molti affidi sono registrati come temporanei ma gli addetti ai lavori sanno benissimo che ci sarà una proroga: di conseguenza la percentuale di affidi che non termineranno si avvicina o supera il 90%. Davvero in Italia così tanti affidi sine die?
Per diverse ragioni che potremo in seguito riprendere – innanzitutto le rilevanti novità nell’ambito del diritto civile minorile registrate tra il 2012 e il 2015 – in questo momento ci si deve interrogare necessariamente su quale sia il futuro dell’affidamento familiare e, in particolare, dell’istituto dell’affidamento familiare giudiziale ad oggi pronunciato dai Tribunali per i Minorenni ai sensi degli artt. 4, comma 2, L. 184/1983 e 330 e seguenti del Codice civile. Si tratta della fattispecie che costituisce la stragrande maggioranza dei casi – un terzo circa sono i casi invece di affidamento consensuale disposti dai Servizi sociali e ratificati dal Giudice tutelare – e sono quelli decisi dai Giudici minorili a favore di una persona minorenne, priva temporaneamente di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli interventi di sostegno e aiuto disposti ai sensi dell’art. 1, e che è affidato ad un’altra famiglia, preferibilmente con figli minori, o anche ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui bisogno.

Si tratta davvero di affidi sine die o “soltanto” di affidi che durano più dei due anni previsti dalla legge? Ci aiuta a definire esattamente l’affido sine die e a fare una fotografia?
Intanto è il caso di ricordare che, di là dalle valenze istituzionali che ha assunto anche nel nostro Paese, si tratta di un intervento che trova profonde radici in una cultura dell’accoglienza e della solidarietà volontarie – si pensi all’istituto del baliatico – che sarebbe opportuno conoscere e riattualizzare. Detto questo, anch’io ho letto con molto interesse l’ultimo libro del dottor Chistolini e ne condivido l’assunto secondo il quale l’obiettivo principale del nostro operato debba essere sempre quello di assicurare alla persona minorenne un contesto familiare adeguato in cui crescere e ritengo sia apprezzabile che abbia posto con forza l’esigenza di costruire contestualmente un pensiero teorico e criteri operativi innovativi che diano significato e aiutino a gestire le effettive declinazioni dell’affidamento familiare a più di trent’anni dalla promulgazione della legge che ne regola il funzionamento.

Sappiamo bene che l’affidamento familiare è previsto come intervento a tempo determinato, ed è quindi temporaneamente finalizzato al raggiungimento del benessere del minore e al superamento della situazione di crisi attraversata dalla famiglia d’origine, tanto che il periodo di presumibile durata dell’affidamento deve essere rapportabile al complesso di interventi volti al recupero della famiglia d’origine e tale periodo non può superare la durata di 24 mesi per quanto prorogabile, dal Tribunale per i Minorenni, qualora la sospensione dell’affidamento rechi un pregiudizio al minore.

Quanto al cosiddetto “sine die” e agli aspetti in qualche modo degenerativi correlati, il richiamo giustamente esplicitato dalla sua domanda è alla dimensione temporale che assume sempre, com’è evidente, una funzione cruciale quando si parla di persone minorenni e di interventi di tutela rispetto al loro sviluppo evolutivo e, soprattutto, alla questione dei legami di attaccamento. Tuttavia, tali interventi devono essere coniugati in termini multidimensionali e accanto alla dimensione temporale vi è innanzitutto quella relazionale che riguarda il minore e il suo mondo vitale, ad iniziare dalla famiglia d’origine. Purtroppo, come segnalato lo scorso anno dal Gruppo Crc nell’ultimo Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, nel nostro Paese sono carenti i monitoraggi sugli esiti degli affidamenti giudiziali e, in particolare, sulle persone minorenni in affidamento per le quali persistono situazioni familiari di partenza inadeguate e che possono quindi determinare un affidamento prolungato. Mancano, inoltre, dati aggiornati sulle persone minorenni che rientrano nelle famiglie di provenienza quando l’affidamento familiare si conclude e, in generale, sugli esiti a lungo termine dell’affidamento.

Vi è il rischio sotteso all’idea che mantenere il legame con i genitori sia comunque qualcosa da salvaguardare, anche quando questo legame è con ogni evidenza carente e disfunzionale. In ogni caso, è indiscutibile che sia opportuna una riflessione ed un confronto sui criteri di “gestione” degli affidamenti familiari e su come adeguare le regole dell’affidamento temporaneo a realtà familiari in profonda trasformazione

Quali sono a suo giudizio le cause di questa situazione?
Anche se non disponiamo di informazioni quantitative attendibili potremmo dire di follow up, non possiamo non interrogarci sulle ragioni che determinano un alto numero di affidamenti che via via assumono struttura, dinamiche e significati diversi da quelli che avrebbero dovuto avere secondo la normativa vigente. Tra le cause, possiamo annoverare la difficoltà nel valutare e trattare i problemi della famiglia di origine e i relativi sviluppi, con conseguenti progetti poco rispondenti alla realtà della stessa. Vi è, inoltre, il rischio sotteso all’idea che mantenere il legame con i genitori sia comunque qualcosa da salvaguardare, anche quando questo legame è con ogni evidenza molto carente e disfunzionale. In ogni caso, risulta indiscutibile come si sia resa opportuna una riflessione ed un confronto sui criteri di “gestione” degli affidamenti familiari e su come adeguare le regole dell’affidamento temporaneo a realtà familiari in profonda trasformazione, così come il contesto sociale e culturale in cui sono inserite.

L’affido sine die tutela il minore fuori famiglia e la sua possibilità di rientrare in famiglia o è al contrario qualcosa che – lasciando il bambino in una sospensione indefinita – lede il suo diritto a crescere in una famiglia? Cioè: è o non è un problema, dal punto di vista della tutela dei minori, il fatto che esistano così tanti affidi sine die?
La questione relativa agli interventi di affidamento familiare a tempo indeterminato – preferisco nominarli così – si era posta anche al momento della riforma della legge 184/1983, così come modificata dalla legge del 28 marzo 2001 n. 149, in particolare in riferimento a quanto stabilito all’art. 4 sulla durata dell’intervento. L’interrogativo quindi non è nuovo, ed in questi anni è sempre stata presente l’esigenza di meglio definire questo intervento dal punto di vista giurisdizionale e dal punto di vista degli operatori dei Servizi incaricati. In particolare, sono stati intesi a tempo indeterminato i progetti di affidamento familiare la cui durata non è necessariamente definita nel Decreto e per i quali non è previsto espressamente il rientro in famiglia o nel quale il progetto si modifica nel tempo sino a non consentire più il rientro in famiglia del minore. Dal punto di vista dei Servizi preposti alle funzioni di tutela dei minori, questo tipo di affidamento prolungato è risultato funzionale, in presenza di un provvedimento de potestate, nei casi in cui ha consentito al minore di mantenere una relazione con la sua famiglia d’origine e nei casi nei quali ha premesso un’alternativa all’istituzionalizzazione. Va ribadito che si tratta di interventi di affidamento familiare altamente complessi, in particolare per le reazioni vissute dal bambino affidato.

Se ridurre gli affidi sine die fosse un obiettivo da perseguire, come si potrebbe affrontare la questione, a suo parere? Quali soluzioni, strade, proposte?
Tra le novità legislative di questi ultimi anni, in merito al tema che stiamo affrontando, va collocata la Legge 19 ottobre 2015, n. 173, diretta a modificare la L. 4 maggio 1983, n. 184, in materia di adozioni. Tale legge riconosce un importante principio, ovvero il diritto alla continuità dei rapporti affettivi dei minori in affido familiare. L’approvazione definitiva della legge che stabilisce il diritto alla continuità educativa dei bambini in affido familiare è importante non solo sul piano del riconoscimento dei diritti dei bambini, ma anche perché tenta di porre rimedio alla situazione delineata dal libro di Chistolini, nello specifico rispetto ai casi descritti in cui l’esperienza dell’affido non si conclude con il rientro del minore nella famiglia di origine, ma, a seconda delle situazioni, con un prolungamento dell’affido fino al raggiungimento della maggiore età da parte del minore o, nelle realtà più problematiche ma anche più definite, con la dichiarazione di adottabilità del minore.

Di fatto, la nuova legge sembra riconoscere l’esistenza di due tipi di affidamento: il primo è quello tradizionale e temporaneo che si conclude con il rientro in famiglia dopo un periodo breve; il secondo è da considerarsi una sorta di esperienza pre-adottiva. I giudici e i vari operatori sociali dovranno essere in grado di stabilire a quale delle due categorie appartenga l’affido quanto prima possibile, auspicabilmente già nel momento in cui decidono l’allontanamento del minore dalla sua famiglia

La legge sulla continuità degli affetti operativamente quindi consente di “creare” a monte due diversi tipi di percorsi?
Di fatto, la nuova legge sembra riconoscere l’esistenza di due tipi di affidamento: il primo è quello tradizionale e temporaneo che si conclude con il rientro in famiglia dopo un periodo relativamente breve; il secondo è da considerarsi una sorta di esperienza pre-adottiva. I giudici e i vari operatori sociali dovranno essere in grado di stabilire a quale delle due categorie appartenga l’affido quanto prima possibile, auspicabilmente già nel momento in cui decidono l’allontanamento del minore dalla sua famiglia di origine, proprio per evitare che, nei fatti, si ricreino le situazioni di discontinuità affettiva. Nelle due tipologie di affidamento, infatti, possono essere molto diversi i criteri con i quali viene scelta la famiglia affidataria (ad esempio, la sua possibilità/volontà di trasformarsi in famiglia adottiva), gli interventi nei confronti della famiglia di origine (più o meno tesi al recupero della sua capacità genitoriale), la regolazione dei rapporti del bambino con la sua famiglia di origine (ad esempio, numero e modalità degli incontri), l’azione di sostegno da parte dei servizi o delle realtà del terzo settore nei confronti degli affidatari e della famiglia di origine. È evidente, pertanto, come l’efficacia della nuova legge dipenda in gran parte dalla capacità valutativa e progettuale dei servizi che sono chiamati ad attuarla. Il passaggio dall’affido all’adozione resta, comunque, una fase di transizione problematica e delicata che la nuova norma, da sola, non può certo risolvere.

di Sara De Carli – Fonte

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