Un adolescente adottato si mette alla ricerca dei suoi genitori biologici tramite Facebook. Riesce a trovarli, ma rimane scioccato e turbato perché vede sua madre in pose provocanti e suo padre fotografato ubriaco. Ecco un esempio di ciò che i genitori adottivi di oggi temono di più. Mentre un tempo infatti i contatti con la famiglia di origine erano sempre mediati dagli operatori sociali, oggi i giovani adottati spesso cercano i propri familiari sul web, senza una vera consapevolezza delle conseguenze, che possono essere devastanti per loro e le loro famiglie. Non solo. L’utilizzo dei social network da parte dei genitori biologici, anche per ricercare i figli dati in adozione, è in crescita e anche questo è un problema serio e di portata crescente, così che i genitori adottivi si trovano oggi più che mai nella necessità di trovare un difficile equilibrio tra i bisogni del bambino e la necessità di proteggerlo. Ad aiutarli, in maniera estremamente concreta e con abbondanza di informazioni, arriva il libro Faccia a Faccia con Facebook. Manuale di sopravvivenza per famiglie adottive (Franco Angeli) della scrittrice, esperta di adozione oltre che madre adottiva, Eileen Fursland.

Divisi tra diritto a conoscere le proprie origini e protezione
Il leitmotiv di fondo del libro è questo: i figli adottivi hanno diritto a rintracciare le proprie origini, ma “appare fondamentale che questo avvicinamento non sia in solitudine”, come invece l’approccio attraverso i social media tendono a favorire. Un adottato che si metta alla ricerca dei propri genitori biologici avrà sempre bisogno del sostegno emotivo dei genitori. Tramite Facebook, invece, spesso si bypassa l’appoggio dei genitori e insieme “il ruolo istituzionale dei servizi, con relative violazioni della riservatezza e contatti inaspettati, non pianificati e non ben ponderati, ansiogeni e destabilizzanti per i giovani adottati e i loro genitori adottivi”. Spesso inoltre internet e i social media sono i luoghi dove si riversa la rabbia dei genitori biologici verso i servizi sociali, ed è per questo quanto mai importante proteggere i bambini. Inoltre la comunicazione telematica manca delle sfumature e dei segnali non verbali che aiutano a leggere l’interlocutore e le sue intenzioni e si prestano a gravi equivoci. Infine le email e i messaggi in chat tra un genitore biologico e suo figlio possono contenere accuse, oppure tentativi di persuadere il ragazzo a incontrarli, ma anche sfoghi della propria infelicità e frustrazione.

Rassicurare, sostenere, accompagnare
Cosa fare, dunque? Come primo consiglio, l’autrice invita i genitori a parlare in maniera aperta dei genitori biologici fin dalla tenera età, per evitare un’aura di mistero che li porti a fantasticare su come sarebbe stata la vita con loro. È importante rassicurare il bambino dicendogli che le sue domande e la sua ricerca non feriscono, ma anche cercare di capire cosa davvero desidera, perché spesso non è chiaro neanche a lui. Per quanto riguarda invece Facebook, è meglio anticipare la ricerca solitaria e chiedere al proprio figlio cosa proverebbe se i genitori o un fratello biologico lo contattassero su Facebook, ricordandogli che potrebbe rimanerne scosso e tutte le altre conseguenze.
Se devono esserci contatti con la famiglia biologica, scrive l’autrice, è sempre meglio che questo avvenga per scelta dei genitori insieme al figlio magari utilizzando proprio i social network per contattare le famiglia di origine e scegliendo un luogo sicuro (quando precisamente ciò debba avvenire è difficile da dire, perché “la tempistica è una zona grigia”, ma bisogna parlarne, rispettando sempre il punto di vista del bambino). Il contatto non mediato e diretto con i genitori biologici, invece, ripete l’autrice, è un’esperienza difficile da gestire per qualsiasi bambino.

Quando i divieti sono inutili
Ma l’incontro, anche solo via web, con i genitori biologici può essere destabilizzante anche per loro, perché emotivamente fragili, perché in crisi o con problemi di salute, perché la gravidanza magari era stata tenuta nascosta. La cautela, dunque, è d’obbligo, in entrambi i sensi. Inoltre l’autrice invita a restare calmi se il bambino confessa di essersi messo in contatto con i propri genitori biologici, evitando di vietargli internet. “Si può decidere di accettare l’accaduto e cercare di affrontarlo, piuttosto che cercare di fermarlo”. Infine suggerisce cosa fare anche nel caso più estremo, quando un figlio decide di andare a vivere con i genitori biologici: elaborazione del lutto e porta sempre aperta.
Il manuale contiene consigli dettagliati su tutte le impostazioni di Facebook necessarie per diminuire il rischio di contatto tra figli adottivi e genitori biologici – meglio farlo insieme, se possibile – così come spiega con precisione quale dovrebbe essere l’utilizzo delle foto sui vari social network, da Istagram a YouTube. L’autrice suggerisce anche di riflettere, in casi estremi, sulla possibilità di cambiare il nome di battesimo oltre che il cognome, per non essere riconosciuti e dà suggerimenti su come far rimuovere foto messe in maniera poco prudente o informazioni dal web che sono utili anche a chi genitore adottivo non è.

Se l’aiuto viene da una favola
Creare una favola che possa narrare l’adozione è invece il consiglio alle famiglie adottive di oggi di Anna Genni Miliotti, madre adottiva e autrice del fortunato Mamma di pancia, mamma di cuore. Formatrice free lance sulle questioni dell’adozione di genitori, operatori e insegnanti, ha scritto il libro Le fiabe per raccontare l’adozione (Franco Angeli) in cui spiega qual è la forma narrativa più adatta per raccontare al proprio figlio adottivo ciò che è accaduto. “Non dovrà essere un capolavoro letterario, ma sarà la fiaba giusta perché li farà star bene, rispondendo a tutte le loro domande, a quelle espresse come a quelle che restano dentro”, scrive. Si tratta di bambini che hanno vissuto storie complesse, che hanno cambiato una o più famiglie e verso i quali la parola chiave è “accoglienza”, nel rispetto della loro storia e delle loro origini. Ma quali sono gli errori narrativi da non fare e gli stereotipi da evitare? L’idea che i genitori adottivi siano dei “santi” che salvano un bambino, così come un racconto delle emozioni “a scaletta” che va dal dolore alla felicità completa senza note di mezzo. Da accantonare anche la parola “abbandono”, perché un bambino è una cosa preziosa che non si butta via: meglio utilizzare il verbo “lasciare” o “affidare”.

Mai dimenticare la nascita
Anche l’immagine della cicogna o dell’angelo che si distraggono e consegnano il bambino a genitori sbagliati è molto diffusa e utilizzata ed una soluzione cara ai genitori-narratori. Ma, spiega l’autrice, è un’immagine che non funziona perché dà voce al più grande incubo di ogni adottato: essere nato per caso. Un altro errore è non parlare della mamma “di pancia”, la “genitrice” di cui tutti i bambini vogliono sapere. Bisogna darle un nome e un ruolo – ad esempio può essere una bellissima ragazza di un paese dove splendeva sempre il sole. La seconda tappa prevede la risposta alla domanda più difficile: perché non mi ha tenuta? “Nel trovare la soluzione narrativa”, spiega Anna Genni Miliotti, “è bene ispirarsi alla storia del bambino. Occorre lavorare di fantasia, senza perdere il contatto con la realtà”. Così ci può essere una mamma uccello che lascia il nido perché non riesce più a nutrire i suoi piccoli – nel libro la maggior parte delle favole ha protagonisti animali di specie diverse – e poi potranno fare la loro comparsa altri animaletti buffi che aiutano il cucciolo a trovare una nuova famiglia (sono gli psicologi, gli assistenti sociali, gli operatori degli enti, i formatori, i giudici, gli interpreti etc). Il bambino insomma è protagonista e al centro delle cure, e svilupperà il senso del suo valore se vede tante persone adoprarsi per lui. La fiaba deve poi essere incentrata sulle emozioni, partendo dalla felicità della nascita, poi ai sentimenti vissuti in un’eventuale casa famiglia – allegria ma anche tristezza e scoraggiamento perché ci si sente soli- quindi stupore e sorpresa verso i nuovi genitori e la felicità di una nuova famiglia. Così si costruisce un racconto che, invece di alimentare ferite e produrre ansie, è eticamente corretto. E, ad esempio, sottolinea che “chi “lascia” lo fa sempre con dolore: perché ama”.

7 DOMANDE AD ANNA GENNI MILIOTTI – madre adottiva ed esperta

Perché è così importante la narrazione dell’adozione?
C’è tanta voglia dei genitori adottivi di raccontare l’incontro con il proprio figlio come l’inizio della storia, il “noi eravamo destinati a stare insieme”, dimenticando che c’è un “prima”. La narrazione aiuta a raccontare questo “prima”. Nelle scuole invece la narrazione è importante contro il tentativo di normalizzare i bambini adottivi. Una mamma l’altro giorno mi ha detto: “Sono fortunata perché le maestre mi hanno detto che considerano mio figlio come tutti gli altri”, mentre io credo che avrebbe dovuto chiedere uno sguardo particolare, perché suo figlio ha una storia diversa. Per non far sentire nessuno diverso si fanno diventare tutti uguali, ma ormai non funziona più questo atteggiamento.

Quali sono gli elementi che una storia dell’adozione deve recuperare?
La nascita che non è nella mente né nel cuore, ma nella pancia. Questo sembra evidente, ma se tu lo dici ad una mamma adottiva si sente come esautorata dal ruolo di mamma, perché lei vorrebbe essere l’unica e quella vera. È comprensibile, ma i genitori formati si comportano invece diversamente, infatti le storie che hanno creato sono bellissime. L’inizio della storia insomma è importante. Poi c’è il momento della confusione “perché non sono più lì” e lì bisogna che tu insegni alla gente, non solo ai genitori, che quando si parla di adozione non si deve parlare di abbandono, bisogna pensare a come trasmetterla senza ferire o arrecare dolore. La narrazione è il primo mattoncino della relazione in famiglia e nell’inserimento in classe.

Lei nelle fiabe dà un’immagine positiva anche degli istituti in cui i bambini si trovano.
In definitiva quando si fanno questi viaggi, anche io ne ho fatti da madre adottiva, si ha voglia solo di tornare a casa e non ci si accorge granché di quello che veramente è, innanzitutto che i bambini sono inseriti in un paese dove non c’è molto ricchezza e spesso i bambini che stanno negli istituti mangiano meglio degli altri, stanno in un luogo protetto, che già è molto, stanno al caldo (pensiamo in Russia). Quando invece si torna indietro ci si accorge invece che questi bambini hanno lasciato delle tracce, il ricordo di sé, tate amorevoli ad esempio, cose che lì per lì, presi da emozioni fortissime, non vediamo. Se nella favola li rivaluti come un luogo in cui si prendono cura dei bimbi, senza lasciarli soli o famiglie che non potevano curarli, racconti una verità. Inoltre parlare anche degli istituti dà il senso della continuità della loro storia: i bambini hanno dei pezzi, dei ricordi, ma difficilmente riescono da soli a metterli insieme.

Al di là della narrazione, quali sono gli stereotipi che ancora sono forti in tema adozione.
Quello che ho scritto: difficile trovare il concetto che l’adozione è una famiglia. Diversa, ma è una famiglia, i cui figli che vengono adottati, sono anch’essi biologici perché sono nati da qualcuno; per qualcuno è la seconda famiglia, per qualcuna di più però è sempre una famiglia: invece si vede l’adozione come due persone che hanno aiutato un bambino. E questo secondo me crea tante situazioni difficili da gestire perché in una famiglia uno è genitore e l’altro è il figlio, non è che uno è stato salvato e l’altro salva, non c’è un rapporto pari. E poi questo buonismo, “poverino ha sofferto tanto”, non li aiuta a crescere né ad adempiere i propri doveri.

Cosa pensa della richiesta di un incontro con i genitori biologici?
Non tutti gli adottati vogliono fare il viaggio, alcuni vogliono ritrovare delle cose, altri invece non lo vogliono per nulla quindi assolutamente: rispetto. I genitori si dividono in due categorie: chi li vuole portare per forza e altri che fanno orecchie da mercante e lasciano cadere il tema, tanto che gli adottati aspettano addirittura che i genitori adottivi siano morti per poter poi cercare. Perché uno dei sentimenti più forti che lega gli adottati ai genitori adottivi è la lealtà, non farebbero niente che ti possa far del male, perciò se si accorgono che il discorso dell’origine ti mette a disagio non te ne parlano più e magari a 18 anni si suicidano. Le storie possono diventare drammatiche perché in alcuni c’è un bisogno forte. In alcuni è l’esigenza di rivedere il paese, in altri di una ricerca vera e propria. Bisogna sempre rispettare il protagonista e il genitore lo può accompagnare se è in grado di farlo: io l’ho fatto con tutte e due i miei figli e non è una cosa facile, perché i momenti sono forti; bisogna essere pronti anche a fare un passo indietro, spesso non lo si fa, non per cattiveria ma perché si pensa di proteggere, anche la normativa italiana è molto tesa a proteggere.

Le adozioni internazionali sono in diminuzione, per colpa della crisi. Perché secondo lei?
Questi dati valgono per tutto il mondo e nonostante questo siamo sempre al secondo posto per il numero di adottati dall’estero. Quindi è un quadro internazionale dovuto senz’altro alla crisi globale, ma anche perché questi paesi che sono “serbatoi dell’infanzia” si stanno organizzando con adozioni nazionali, anche perché c’è un po’ di revanche di nazionalismo per cui magari li faccio morire o li tengo in condizioni pessime pur di non darli. E poi, terzo motivo, c’è la diffusione a basso costo della procreazione assistita. L’eterologa apre scenari nuovi, in Toscana è considerata una terapia sanitaria. Quindi chi desidera un figlio farà altre strade ed è bene perché secondo me sono genitori che forse avrebbero delle difficoltà ad accettare come proprio un figlio nato da altri. Anche l’eterologa comunque è complessa e ha problematiche simili all’adozione, anche lì c’è la ricerca delle origini, un figlio che non ti assomiglia etc.

Come giudica la nuova normativa che consente di prendere in adozione il bimbo che si ha in affido? E quali altri cambiamenti normativi sono in corso?
La continuità tra affido e adozione è importantissima perché va a sanare situazioni di bambini che passano da una famiglia a un’altra senza continuità. Questo però, attenzione, porterà a scegliere coppie affidatarie con requisiti simili a quelle adottiva, con un cambiamento radicale perché l’affidatario può essere anche un singolo, che però non può adottare. Allora scarti i single? Per quanto riguarda altri cambiamenti c’è una legge che deve però ancora passare al Senato che abbassa l’età per la richiesta del proprio fascicolo da 25 a 18 anni e apre la possibilità di un contatto tra figli adottivi e i genitori che hanno chiesto l’anonimato. La Corte di Strasburgo ha sanzionato l’Italia, dicendo che andava cambiata la parte sull’anonimato perché non è bilanciato il diritto dell’adottato con quello dei genitori. La nuova proposta dunque prevede che in caso di anonimato tramite gli operatori, i tribunali venga ricontattato il genitore anonimo chiedendogli se è disponibile ad un contatto. Si parla cioè di reversibilità dell’anonimato e ci sono tante persone – stiamo parlando delle adozioni italiane – che aspettano che questa norma sia adottata. Io penso che siano tra mille e duemila. Difficile però fare una stima. Quelli che cercano sui gruppi Facebook sono solo una parte. Posso però dire che al secondo raduno nazionale degli adottati sono venuti da ogni parte d’Italia, con storie incredibili. È come avere una finestra sugli anni Cinquanta, quando l’adozione era un segreto, i bambini indigenti. Oggi è tutto un altro mondo.

di Elisabetta Ambrosi – Fonte

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