Ci possono volere duemila giorni, com’è accaduto a Nina, per abbracciare i suoi figli senegalesi. Oppure si può finire in un tempo senza approdo, com’è accaduto a Gloria, che dopo sei anni ha rinunciato a diventare madre. Perché l’adozione oggi in Italia è diventata una «insostenibile attesa », come hanno scritto i genitori dei centocinquanta bambini del Congo, che soltanto adesso riusciranno (sembra) ad abbracciare i loro ragazzi, “ostaggi” dal 2013 di un inestricabile affaire burocratico- diplomatico, e obbligati a restare negli orfanotrofi africani proprio quando stavano per arrivare nel nostro paese. A 33 anni dal varo della legge 183 del 1983, a 15 anni dalla sua riforma nel 2001, a 10 anni poi dalla chiusura dell’ultimo orfanotrofio italiano, oggi l’adozione sia nazionale che internazionale sembra entrata in una crisi senza ritorno.

Tempi infiniti, esiti incerti, giustizia lenta, bambini grandi e special needs, paesi stranieri che lasciano i propri figli negli orfanotrofi piuttosto che darli in adozione, ma anche adozioni che falliscono. Le cause sono diverse ma il risultato, amaro, è lo stesso: non ci sono figli per tutti coloro che vorrebbero diventare genitori. Per ogni bambino italiano (o nato qui) e dichiarato in abbandono, circa mille l’anno, ci sono 10mila coppie disponibili. Un numero enorme. Il cui destino è quello di non essere nemmeno mai convocate dai tribunali per i minori. Perché negli istituti continuano ad esserci, è vero, un folto numero di bambini e adolescenti (circa 28mila nel 2014), ma la gran parte di questi, spiegano i giudici minorili, «non è adottabile ». Racconta Gloria: «Dopo sei anni di attesa mio marito ed io abbiamo detto basta. Soltanto una volta ci hanno proposto un ragazzo, con una grave forma di autismo. Non ce l’abbiamo fatta…». In realtà, nella frammentazione delle istituzioni che accolgono i minori senza famiglia, circa 11mila, con rette che vanno dagli 80 ai 200 euro giornalieri, con gestioni spesso opache e senza controlli, c’è un drappello di bambini che si “perde”: sballottati tra case famiglia e comunità,tra ritorni e nuovi abbandoni, restano per anni in un limbo giuridico che ne consuma la giovinezza.

Al contrario, sul fronte internazionale, dove l’Italia era leader nel mondo, le domande continuano a crollare: erano 8.274 nel 2004, sono diventate 3.857 nel 2014. E non sono le difficoltà burocratiche, e nemmeno i costi a volte altissimi (fino a 40mila euro nei paesi dell’Est) a spaventare le coppie, bensì, raccontano i genitori, l’insostenibile attesa. Quella gestazione infinita che scatta quando le coppie si rivolgono ad uno dei 62 enti autorizzati che negli angoli più remoti e abbandonati del mondo cercano di dare una famiglia ad un bambino.

Perché da questo momento in poi può accadere di tutto, come spiega Milena Santerini, deputata del gruppo Per l’Italia, e responsabile delle adozioni internazionali per la Comunità di Sant’Egidio. «Sì, ci possono volere anche quattro anni, ma alla fine il bambino arriva. Dietro questo crollo di domande c’è prima di tutto la difficoltà dei paesi in cui si adotta a far uscire i propri bambini. Perché i governi, giustamente, favoriscono l’adozione nazionale, ma anche per ragioni meno nobili, per alzare cioè la posta verso i paesi “ricchi”, o per nascondere il vero stato dell’infanzia all’interno dei propri confini. Ho provato un grande dolore tornando in Cambogia e vedendo che negli istituti c’erano gli stessi bambini che avevo incontrato anni prima…».

Gran parte della responsabilità però è anche dell’Italia. «Abbiamo smesso di investire sull’estero, non ci sono più progetti di cooperazione, pensate all’Africa, avrebbe bisogno delle adozioni, ma mancano le leggi, mancano i tribunali…». Aggiunge Paola Crestani del Ciai: «Soffriamo il totale immobilismo della nostra commissione adozioni internazionali, la Cai, in due anni non ci ha mai convocato. Ci sono paesi che attendono dall’Italia, da anni, la firma di accordi. Oggi però dall’estero arrivano “figli” sempre più grandi, spesso con problemi fisici. Così molte coppie si spaventano ». Gianfranco Arnoletti del Cifa: «Avevamo la ladership mondiale perché c’era una volontà istituzionale di sostenere le adozioni, oggi tutto questo è scomparso ». In attesa della firma della Cai ci sono Haiti, il Burundi, la Bolivia.

Questa dunque la realtà. Troppe coppie, pochi bambini. A volte impossibili. Tanto che conferma la giudice Melita Cavallo, «è cresciuto il numero dei ragazzi “restituiti”, ossia riconsegnati dai genitori nella mani dei servizi sociali ». Una tragedia. Eppure, dopo la bocciatura della stepchild adoption, ovunque è risuonato lo slogan “adozioni per tutti”, e poi “liberiamo i bambini prigionieri negli orfanotrofi”. Tanto che alla Camera, sta per iniziare un percorso di revisione della legge 184, nell’ottica di estendere la possibilità di adottare, anticipa Donatella Ferranti, «alle coppie di fatto, ai single, e forse alle coppie gay». Ma i giudici minorili frenano. Spiega Laura Laera, presidente del Tribunale per i minori di Firenze: «Non esistono bambini prigionieri degli orfanotrofi. Intanto perchè non sono orfani. Dei circa 28mila minori “fuori famiglia” circa 15mila sono già in affido. L’altra metà è composta da ragazzi che hanno ancora legami con le famiglie d’origine, sono minori non accompagnati, piccoli in comunità con le madri. I bambini realmente adottabili, perché abbandonati alla nascita, o perchè la Giustizia ne ha decretato l’allontanamento dalla famiglia, sono circa mille l’anno, e per loro le procedure sono assolutamente celeri. Ci sono, invece, ragazzi grandi che nessuno vuole, questa è la realtà».

Non nasconde preoccupazione Melita Cavallo. «La 184 è una buona legge, mette al centro l’interesse del bambino, sento invece troppo parlare dei diritti degli adulti… Ma ci vuole un limite di tempo alla permanenza in istituti: i tribunali devono decidere in tempi umani del futuro di bambini che hanno già sofferto l’abbandono ».

“Cinque anni dall’Africa all’Italia, ma ce l’abbiamo fatta”      La testimonianza di una mamma adottiva

“Quando guardo i miei figli e sento la forza della nostra unione, e li vedo crescere bene superando mille difficoltà, capisco che era qui che volevo approdare, tutto oggi ha un senso e loro sono i miei magnifici bambini. Ma l’attesa è stata tremenda, ingiusta per noi e per loro: 5 anni e mezzo per poter abbracciare i nostri figli. Vi rendete conto di che cosa significa?”. Nina Tamaro vive a Roma, fa la stilista di borse, e oggi è mamma di una bambina di 9 anni e di un maschietto di 12.

Oltre duemila giorni di attesa…
“Sembrerà incredibile ma adottare in Africa è difficilissimo. Mancano i tribunali, le leggi. Dopo aver ottenuto l’idoneità, e un tentativo di adozione nazionale, abbiamo dato mandato ad un ente che si occupa del Senegal. E da allora è iniziata un’attesa infinita”.

Vi avevano avvertiti dei tempi?
“No, anzi proprio perché eravamo disponibili ad andare in Africa e anche ad adottare due bambini, ci avevano assicurato tempi rapidi”.
“L’ente ci diceva di avere pazienza, ma è evidente che il meccanismo si era inceppato. Sia in Italia che in Africa. Mi sentivo sfinita, pensavo che i bambini non sarebbero mai arrivati…”.

Poi ce l’avete fatta. Siete partiti.

“Sì, mi emoziono ancora. Ma per poterli riabbracciare ci sono voluti altri 7 mesi e un secondo viaggio”.

Com’è stato diventare una famiglia?
“Bello e difficile. Abbiamo faticato. Tutti insieme. Ma devo dire che dai servizi sociali non è ci arrivato alcun aiuto. Ecco, la solitudine del post adozione è il vero buco nero della legge italiana “.

di Maria Novella De Luca – Fonte

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