«Winner, vieni al telefono, a mamma. Saluta la signora». Scalpiccio di passi, fiatone, gioia nella voce: «Ciao Margherita sono Winner, giocando basket». E poi via di corsa per riunirsi agli amici in campo. Antonella Prete si commuove: «A lei vengono i brividi per l’emozione, pensi a me…». È una delle mamme italiane che hanno adottato i 151 bambini bloccati in Congo dal novembre 2013 a causa dello stop imposto dal governo locale. Non era in discussione la regolarità delle pratiche, tutte concluse positivamente, i bambini già abbinati ai rispettivi «richiedenti». C’era di mezzo la volontà delle autorità della Repubblica africana di dare una stretta al sistema.

Antonella e il marito Cosimo hanno aspettato 955 giorni prima di poter stringere tra le braccia i loro tesori. Oltre a Winner, 6 anni, il fratello Paulda, di nove. Ma per molti genitori il contatore che segnava il tempo si è fermato solo giovedì, a 989, quando gli ultimi diciotto piccoli, compresi tra le 151 vittime del blocco, sono stati «liberati» e accompagnati a Roma. I più problematici perché provenivano da Goma, zona di guerra.

Un supplizio per grandi e piccoli, funestato dalla mancanza di notizie. «Oltre al dolore, la mortificazione di essere tenuti fuori dalla porta, trattati con indifferenza da chi avrebbe dovuto invece informarci costantemente degli sviluppi», si sfoga Antonella. C’è molto risentimento nei confronti della Commissione adozioni internazionali (Cai) che ha negato ogni contatto con genitori e enti ufficiali, incaricati di seguire i dossier. «Ci dicevano che era tutto a posto, ci mostravano le cartelline rosa con i documenti. Ecco vedete, non dovete temere. Invece quelle cartelline contenevano errori di procedura».

 Antonella è avvocato, abita a Matera, ha 43 anni. Assieme ad altre coppie ha fondato il «Comitato bambini del Congo». Il fatto di avere i suoi cuccioli accanto non la consola della sofferenza provata: «Winner e Paulda sono arrivati il 7 maggio, con un volo dell’Ethiopian, scalo ad Addis Abeba. Grazie a una soffiata dei nostri contatti a Kinshasa ci siamo precipitati a Fiumicino. Li abbiamo visti sfilarci sotto il naso al di là del vetro mentre li spostavano in un altro gate. Eravamo paralizzati da un misto di rabbia e impotenza, noi e gli altri in attesa. Ai gruppi sbarcati tra gennaio e maggio è andata ancora peggio». Ha mai perso la speranza? «Quando ci siamo resi conto che i bambini adottati da altri Paesi stavano arrivando alla spicciolata, ho avuto il terrore che tutto fosse perduto. Non eravamo disposti a arrenderci, però, saremmo andati a prenderli in Congo, i nostri figli». Parlavate con Winner e Paulda? «Sì, via Skype. E per prima cosa domandavano, mamma, papà quando ci prendete? Lo sa cosa significano tre anni di più in orfanotrofio per bimbi che hanno già patito la separazione dalla madre, morta poco prima che entrassero in istituto? Tutti per 989 giorni non abbiamo vissuto. La Cai ha commesso diversi errori. Denunceremo e qualcuno dovrà pagare, spiegarci perché siamo stati trattati così».
di Margherita De Bac – Fonte

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