Si parla oggi, ovunque, di assenza di autorevolezza genitoriale, di difficoltà a gestire ragazzi apparentemente fuori controllo o in balia delle sostanze d’abuso (basti pensare al caso romano di omicidio effettuato da due ragazzi sotto effetto di cocaina e alcol), o ancora «perduti» nella dipendenza da Internet e dai Social.

Esiste poi, a monte, il fenomeno preoccupante della dispersione scolastica, di quei ragazzi cioè che sembrano «perdersi per strada» lungo il percorso della scuola, senza un orizzonte di crescita chiaro.

Connessa a queste tematiche, la necessaria riflessione sul ruolo genitoriale.

In ambito di psicoanalisi sentiamo spesso parlare di funzione del padre e funzione della madre. Quali sono, calate nella vita quotidiana, queste funzioni? Prendiamo la letteratura psicoanalitica e usiamo esempi concreti utili a farci un’idea di cosa si intenda con questi concetti. Nell’immagine popolare, la madre è quella che accoglie, il padre dovrà invece impostare i necessari «limiti».

Nello sviluppo del bambino sono indispensabili entrambi gli aspetti: servirà un senso di accoglienza e comunione, sia fisica che psichica (in gergo tecnico: handling e holding), così come sarà necessaria la tranquillità di una libertà confinata (cioè limitata, avente un «confine»).

In psicoanalisi spesso si discute sul concetto di limite: è veramente indispensabile alla salute psichica del bambino? Gli psicologi rispondono di sì, poiché una libertà senza confini si trasforma in caos confusivo e psicologicamente tossico per la sua crescita. E sarà la «funzione paterna», appunto, a dover porre questo limite/confine. Secondo uno dei padri della psicoanalisi attuale, Bion, sarà poi la stessa frustrazione prodotta da questo limite imposto al bambino, a creare in lui un desiderio di andare oltre e l’idea sul come farlo. La sua celebre massima «il pensiero nasce dalla frustrazione» ben sintetizza questo concetto.

Funzione materna e funzione paterna rappresentano quindi due presupposti fondamentali affinché il bambino divenga, usando una terminologia psicoanalitica, un soggetto, ovvero un individuo con propri desideri di auto-affermazione, un proprio pensiero produttivo e una propria voce da spendere all’interno del contesto sociale.

Scendendo un po’ di più all’interno della questione e utilizzando un linguaggio più tecnico, osserviamo come la letteratura psicoanalitica attribuisca alla madre il compito di «particolarizzare» e «personalizzare» le cure fornite al bambino, e al padre quello di consentirgli l’«accesso alla realtà».

La madre dovrà quindi «riconoscere» il bambino nella sua unicità soggettiva: sarà questo sguardo dedicato e attento a conferirgli il senso di essere un individuo unico nella sua diversità dagli altri; al padre, invece, toccherà insegnare al bambino cosa significa confrontarsi con il «piano della realtà». Questo significa che, laddove all’inizio del suo percorso di crescita il bambino vive come immerso in uno stato di dipendenza nei confronti della figura materna (condizione che alcuni autori non hanno esitato a definire come «idilliaca», ma che in lessico psicoanalitico viene chiamata «simbiotica», dove per simbiosi si intende, in natura, «una stretta relazione fra due o più organismi, solitamente di carattere biologico»), sarà la funzione paterna quella che gli consentirà di staccarsi da questo stato di dipendenza per proiettarsi e spendersi all’interno del mondo reale.

LA MADRE È IL «PERCHE’» IL PADRE È IL «COME»

Durante il percorso di crescita e nel corso del necessario «svincolo» dal nucleo familiare di provenienza, la madre potrà spingere il figlio a intraprendere il suo percorso di crescita individuale, e sostenerlo con il suo sguardo dedicato e l’amore incondizionato con cui lo avvolge; sarà tuttavia il padre a indicargli il come poterlo fare, portandolo a scontrarsi contro i limiti che la società e la realtà inevitabilmente gli imporranno. Sintetizzando e iper-semplificando: la funzione materna sarà il perché del percorso di crescita del bambino; quella paterna, invece, il come.

Sigmund Freud riteneva che non mettere dei limiti a un bambino volesse dire condurlo a uno stato di sofferenza psichica, fino ad arrivare alla malattia mentale. Il suo «mettere dei limiti», era tuttavia da intendersi come rottura «pedagogicamente necessaria» dell’iniziale, fortissimo rapporto del bambino con la sua propria madre: questo spettava, appunto, alla figura paterna. In linguaggio psicoanalitico questo movimento viene chiamato «triangolazione» del bambino: è importante cioè l’intervento di un «altro» che rompa l’iniziale, fondativo ma asfissiante, rapporto simbiotico con il «materno».

Un testo di Massimo Recalcati, psicoanalista e intellettuale contemporaneo che ha incentrato il suo lavoro sulla funzione materna e in particolare su quella paterna, fa luce su queste tematiche. Si intitola «Il Complesso di Telemaco» e ha un bellissimo epilogo in cui Recalcati raccoglie la testimonianza della vita del suo stesso padre, la riflessione a riguardo della testimonianza, dell’esempio portato dalla figura paterna, è per lui centrale: non più un padre che limita e dirige, ma un padre che muove il desiderio del figlio attraverso la sua stessa vita, testimoniando appunto la messa in atto del suo desiderio di auto-realizzazione.

di Raffaele Avico – Fonte

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