«Io esisto, la mamma no». La frase risuona nella stanza vuota, poi di nuovo il silenzio. Per alcuni orfani di femminicidio – la letteratura scientifica internazionale li chiama “special orphans”, orfani speciali – la prima volta in cui hanno parlato del giorno che ha distrutto la loro vita è stato nel colloquio con la psicologa della Seconda Università degli studi di Napoli Anna Costanza Baldry. Che dal 2011, con un équipe di ricercatori, ha messo proprio loro al centro del suo studio: le vittime collaterali, i sopravvissuti. I bambini segnati per sempre.

Che fine fanno? La cronaca li investe di luce soltanto per pochi giorni: è il caso della dodicenne di Pavia che appena due giorni fa è scampata all’efferato delitto della madre fingendosi morta. Il pensiero corre al trauma indelebile di quel che le accaduto, si sprecano commenti e indignazione. Poi, il buio. Questa coltre, negli ultimi dieci anni, è calata su 1.628 figli. Soltanto negli ultimi tre anni su 417, 180 dei quali minori: 52 sono stati testimoni dell’omicidio della madre da parte del padre, 18 sono stati uccisi insieme a lei. Nella metà dei casi tra le mura di casa è entrata una pistola, o un fucile, e la quotidianità è esplosa all’improvviso. Nello studio Switch-off, che è stato finanziato dall’Unione Europea, Anna Costanza Baldry ha intervistato 143 di questi orfani: alcuni di loro oggi sono adulti, hanno raccontato la loro storia da soli, con immane difficoltà; altri sono ancora minorenni, sono stati accompagnati dai loro affidatari.

I dati raccolti saranno presentati alla Camera nelle prossime settimane ed entreranno in un documento di Linee guida di intervento che sarà a disposizione dei servizi sociali, dei magi-strati, degli insegnanti, delle forze dell’ordine. Obiettivo: «Seguire un protocollo di azione omogeneo e tempestivo – spiega Baldry –. Capire che queste vittime meritano attenzione e cura». Diritti che oggi le istituzioni gli negano. Il primo dato allarmante emerso dalla ricerca della Baldry in effetti è proprio questo: la totale mancanza di un sostegno psicologico adeguato ai figli sopravvissuti ai femminicidi. «Significa – chiarisce l’esperta – che nemmeno nel 15% dei casi monitorati è stata seguito un percorso di psicoterapia». Quanto al supporto dei servizi sociali, che obbligatoriamente si attivano all’indomani di fatti simili, soltanto nella metà dei casi il sostegno è andato oltre l’affidamento: «Davvero troppo pochi». Così nel-l’Italia delle battaglie sul “bene superiore” dei minori, dove protocolli e percorsi pensati per chi sopravvive all’epidemia dei femminicidi (uno ogni tre giorni) non ne esistono, questi figli vengono dimenticati e a gestire l’anno successivo al trauma – quello decisivo secondo i manuali di psicologia per evitare che scelgano di suicidarsi o che diventino a loro volta violenti – pensano nella maggioranza dei casi i nonni. Cioè quelli che nella tragedia hanno perso una figlia. Trauma su trauma, lutto su lutto.

Le montagne da scalare? «I funerali, i processi, l’affidamento». La quotidianità del lutto, il dire o no quel che è successo. E poi quel che resta, cioè moltissimo, del killer: «Tutti chiedono o hanno chiesto del padre», sottolinea Baldry. Perché il papà non si può cancellare, anche quando – e succede spesso – si chiede di veder cambiato il proprio cognome: «In 6 casi su 10, anche se non si è suicidato, è morto comunque. Troppo difficile gestire la sua presenza, le sue lettere, i contatti – continua Baldry –. Soprattutto nel caso di bimbi molto piccoli, poi, gli affidatari preferiscono aspettare la maggiore età per far prendere questa decisione direttamente da loro». Per gli altri il desiderio di un incontro scatta, «qualcuno chiede persino di andare in carcere». E se chi era molto piccolo al momento dell’omicidio della madre non trova spiegazioni per quella inaudita violenza, «chi invece era adolescente costruisce delle ragioni: le liti, lo stress».

Le ferite più grandi? «Più che psicopatologie particolari, che nello studio sono state riscontrate in meno casi di quelli attesi, a testimonianza della resilienza tipica dei minori, ci siamo scontrati con la vergogna». Il sentirsi diversi dagli altri e il non potersi sfogare con nessuno, perché i nuovi punti di riferimento spesso sono persone che hanno vissuto il lutto in prima persona, appunto i nonni o gli zii. Nel caso dei maschi, poi, c’è la piaga del senso di colpa: «Mi sono chiuso in camera, non l’ho salvata», è il racconto con cui Giorgio ha paralizzato gli esperti dell’Università di Napoli qualche mese fa. Nessuno, ancora, nemmeno adesso che ha vent’anni, riesce a fargli capire che un bimbo di 6 non può fermare la mano di suo padre. L’incubo che perseguita, il dolore infinito a cui sopravvivere: «Io esisto, mamma no».

di Viviana Daloiso – Fonte

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