DI COSA parliamo quando parliamo di scuola? Così, parafrasando Raymond Carver, verrebbe voglia di scrivere, inserendo il punto interrogativo che non c’era nel titolo originale. Troppo spesso, chiamati a riflettere di istruzione pubblica, si ha l’impressione di imboccare sentieri sbagliati che, invece di aiutarci a raggiungere la meta, ci allontanano dal traguardo. Perdiamo tempo prezioso a discutere d’altro: il linguaggio si complica nel gergo politico, burocratico, sociologico, pedagogico, amministrativo. Questi sono tronchi bruciati: senza scavalcarli, non andiamo da nessuna parte. E allora, esclama il menestrello, dicci tu dove ci vuoi portare.

Io ti vorrei raccontare i momenti magici che fra pochi giorni, quando ricominceranno le lezioni in tutta Italia, vivranno migliaia di persone, fra studenti e professori: nuclei di umanità che entrano in rapporto, mondi interiori pronti a travasare gli uni negli altri, sensibilità a confronto, caratteri in formazione e maturità da conquistare.

Cose grosse: la tradizione – storica, culturale, scientifica, linguistica, antropologica – che sta alle nostre spalle e deve essere trasmessa alle nuove generazioni. Per farlo bisogna rivitalizzarla. E quindi, impercettibilmente, modificarla. Una missione formidabile, tale da far tremare le vene e i polsi: da una parte modellare le coscienze in crescita, formare lo spirito critico, accendere le passioni, sanare le piaghe, asciugare le lacrime; dall’altra un compito da assolvere che da solo vale quanto una medaglia olimpica: diventare adulti.

Ma perché tutti si dimenticano di te, Valerio? Tu sei quello che, dopo i primi giorni di scuola, si presenta sempre alla seconda ora, anche dopo che il professore lo porta in presidenza ricordandogli di non poter fare più di tre ritardi al mese. È tutto già previsto: note, voti bassi, sospensioni, richiami, genitori che vanno e vengono. Dopodiché: out. Trenta per cento di dispersione scolastica nei primi due anni in certi istituti professionali delle periferie: questo il dato statistico. Ciao Valerio! Non ti dimenticare I sepolcri di Ugo Foscolo, i cui primi versi incredibilmente mi recitasti a memoria alla fine di una partita di calcetto alla Città dei Ragazzi. E nemmeno gli schemi sulla Seconda Guerra Mondiale che ti dettai in fretta e furia sulla panchina dietro casa tua per farti recuperare le numerose assenze. Ricordi quando alzasti la mano con gli occhi sgranati perché non volevi credere al fatto che le donne in Italia avessero avuto il diritto di voto solo nel 1946? “Sei sicuro professò? Ma come po’ esse?”.

E perché, cara collega, la grande maggioranza dei commentatori ti lascerà da sola quando, fra qualche ora, entrerai in aula chiudendoti la porta alle spalle? Eccolo, lì, schierato di fronte a te, lo spettacolo sensazionale della tua vita: venticinque, trenta alunni che ti osservano curiosi. Li dovrai affrontare come sai fare solo tu, senza che nessuno te l’abbia insegnato, perché certe cose ce le devi avere nel sangue. Alcuni sono già cambiati rispetto a tre mesi fa: Giulia si è fatta il piercing, Alice ha i capelli viola, Giorgio si è lussato la spalla cadendo dalla moto, Simone ascolta rap nell’angolo giù in fondo, Michele si nasconde sotto il cappuccio, Romoletto non è concentrato nemmeno adesso, quando gli altri si sono addirittura alzati in piedi per salutarti (non lo faranno più a partire dai prossimi giorni). Mohamed appare timidissimo coi jeans strappati sul ginocchio e la cinta sotto la vita: minorenne non accompagnato. Il più carico è Mihai, nome da gatto, nazionalità ucraina, due sigarette sulle orecchie, una non gli bastava, l’auricolare staccato sotto il lobo, ma pronto per essere utilizzato, appena tu inizierai a spiegare. Questa è la scuola: qui si fa l’Italia o si muore, potremmo perfino azzardare la battuta, pensando ai possibili rischi di un fallimento educativo in termini di integrazione.

L’appello è facile: due allievi “certificati” che avrebbero il sostegno ma l’insegnante non è ancora stato assegnato quindi per ora te li devi gestire tu; quattro ipercinetici, incapaci di stare seduti, i quali dovrebbero restare in aula dalle otto alle tredici e trenta ad ascoltare te; due immigrati neo-arrivati che non sanno ancora la nostra lingua e per capirti cercano di interpretare i tuoi gesti; tre studenti di seconda generazione, che invece l’italiano lo parlano e lo scrivono, sebbene commettano ancora diversi errori, specie nelle doppie. Gli altri sono scolari ordinari: alcuni già consumati dalla “finzione pedagogica” (reciteranno a pappagallo tutto quello che gli dirai); Luca e Claudia potrebbero risultare “eccellenze” nei test Invalsi, perché mamma e papà li hanno educati secondo i vecchi crismi novecenteschi, ma noi, prima di gongolare, dovremmo ripetere l’arcinoto assioma: una risposta esatta non implica una vera assimilazione del tema; una risposta sbagliata non vuol dire che il contenuto non sia stato acquisito. Può essere e può non essere. La scuola non dovrebbe addestrare a superare l’ostacolo, ma insegnare a conoscere. Bello da dire, difficile da realizzare. Nella dimensione assai concreta eppure quasi fatata della classe, dove tutto quello che accade diventa indelebile, la cosiddetta “qualità” assomiglia alla mosca sul naso: quando pensi di averla acchiappata, lei si posa proprio lì, sopra le tue narici.

Insomma in queste condizioni dovrai aprire i Promessi sposi e cominciare a leggere. Oppure a impostare le equazioni di primo grado. O a tornare sulle declinazioni. Magari alle undici e trenta, quando i ragazzi saranno già stanchi. In quel momento fatidico, ti giocherai tutto, in un colpo solo. I discorsi sull’anacronismo della lezione frontale, che hai sentito nei corsi di formazione, dovrai gettarli alle tue spalle: come potresti fare a organizzare un laboratorio proprio ora, quando gli studenti, appena sei entrata, stavano tutti già lì, testa sui gomiti appoggiati sui banchi, massacrati dall’insegnante che ti ha preceduta, la quale per tenerli fermi bloccati minacciava la nota? Le cosiddette “buone pratiche” resteranno belle bandiere da sventolare nelle riunioni didattiche: come realizzarle adesso, qui ed ora, con Manuela intenta a rifarsi il trucco alla finestra, Giorgio impegnato nel solitario a carte, Tiziano che, occhi fissi sul cellulare, quasi fosse da solo nella sua stanza, a un certo punto urla perché ha fatto il punto?

Eppure proprio a causa delle muraglie davanti a te, dei blocchi da scavalcare e delle paludi che dovrai attraversare, il tuo può diventare il mestiere più bello del mondo. Ricordo Abdel, iscritto al quarto superiore, egiziano da tanti anni a Roma con la famiglia, quando venne da me a chiedere aiuto perché la professoressa di lettere, peraltro una mia amica, simpatica e sensibile quanto basta per riuscire a intercettare il giovane arabo, gli aveva messo cinque e mezzo all’interrogazione su Carlo Goldoni mentre lui, costernato ed ambizioso, avrebbe voluto di più. Insieme aprimmo il manuale coi passi sottolineati, gli occhielli sulle pagine, le mappe concettuali disegnate alla fine del capitolo, segni incontrovertibili che il ragazzo si era impegnato. E allora perché non aveva raggiunto almeno la sufficienza? Una mano sulla sua spalla, l’altra che sfogliava il testo poderoso, capace di annoiare perfino me, cresciuto a pane e letteratura, appresi con sgomento la vera ragione: cosa poteva capirne lui di “rusteghi e baruffe chiozzotte”? Quale senso poteva avere per un adolescente cresciuto sul Delta del Nilo, che a malapena padroneggiava la sintassi italiana, imparare i fondamenti della riforma arcadica? La voce del priore di Barbiana filtrò come in un sussurro dentro le mie orecchie: a un quindicenne che ci sta scappando di mano per andare in officina, molto prima della lingua del Monti è meglio spiegare il contratto dei metalmeccanici. La scuola della mitica professoressa a cui venne recapitata la famosa lettera puniva i poveri e insuperbiva i ricchi. Ai primi sottraeva la cultura, ai secondi la conoscenza della realtà. Siamo ancora così? No. Abdel alla fine, in un modo o nell’altro, si è diplomato. Ma c’è ancora molta strada da fare.

Ecco di cosa dovremmo parlare quando parliamo di scuola: dei programmi da rinnovare anche alla luce delle nuove percezioni digitali; degli spazi che andrebbero ridisegnati; dei tempi di apprendimento tutti da ripensare; dei potenziali inespressi; di come è cambiata la testa dei nostri studenti; delle streghe del precetto, purtroppo ancora trionfanti in molti consigli di classe. Dovremmo ragionare sulle domande legittime e su quelle che non si devono porre. Sulla speciale relazione umana che si realizza in aula, in mancanza della quale non si dovrebbe neppure iniziare a spiegare. Solo quando l’avremo fatto, potremo tornare a pensare al primo giorno di scuola come al più bello dell’anno.

di Eraldo Affinati – Fonte

Pin It on Pinterest

Share This