Una ragazzina, una bimba, viene stuprata per tre anni – per tre anni – da un branco di violenti a Melito, in Calabria, e la famiglia non si accorge di niente, non vede il suo disagio. E già qui ci sarebbe da dire. Ma quando la ragazza, a 13 anni, lascia su un tavolo a casa la brutta copia del tema in cui racconta ciò che le sta accadendo, la madre lo legge, le chiede che succede e poi cosa fa? Niente! Perché se si sapesse in giro che la figlia viene violentata questo getterebbe discredito sulla famiglia. Il padre? Idem come sopra. Siamo nell’anno 2016.

Franca Viola, rapita e violentata a 15 anni, rifiutò il matrimonio riparatore, diventando un simbolo per tutte le donne italiane e per un Paese che voleva affermare i diritti civili. Era il 1965. Ed era la Sicilia. “Non fu un gesto coraggioso – ha detto Franca Viola nelle interviste in questi anni – Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi una qualsiasi ragazza: ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé. Oggi consiglio ai giovani di seguire i loro sentimenti; non è difficile. Io l’ho fatto in una Sicilia molto diversa; loro possono farlo guardando semplicemente nei loro cuori”. No, non si può fare se non si ha una “famiglia” con sé. I genitori di Franca, il padre e la madre insieme, furono al fianco della figlia, sempre. I genitori della ragazzina di Melito no. Come non fu al fianco della figlia la mamma della ragazzina romana che si prostituiva ai Parioli – un caso di pochissimi anni fa – e si allarmava non per quanto succedeva alla figlia ma se arrivavano meno soldi in casa! Ancora ho in mente questa frase di quelle intercettazioni: “Ma io voglio andarci a scuola – diceva la ragazza – solo che non c’ho tempo per fare i compiti». E la madre: «Quando tu esci da scuola torni a casa… due ore studi… tre ore e…». La ragazza: «Dopo non ce la faccio ad andare da Minni (Mirko Ieni, lo sfruttatore arrestato ndr), non ce la faccio se studio prima». La madre insiste: «Eh dall’una alle tre puoi… tanto tu vai sempre alle tre lì (nell’appartamento di viale Parioli affittato da Ieni, ndr.)». Non ce la faccio, perché dopo che ho studiato sono stanca». Ma la madre non si arrende e dà consigli per conciliare al meglio studio e “lavoro”: «Allora devi fare una scelta… puoi alternare i giorni…». Sono parole orrende, violente, inascoltabili. Parole indicibili – quelle di Melito e quelle di Roma – da parte di una madre a una figlia.

Se non ci si fida di chi ti ha messo al mondo di chi ti fidi? Allora io mi domando cos’è una famiglia, chi è un VERO genitore. Si è fatta una discussione furibonda sulla stepchild adoption (l’adozione del figlio del partner) in occasione della legge sulle unioni civili, negando l’adozione alle coppie omosessuali. Si nega l’adozione ai single. Il tutto in favore della famiglia tradizionale, di un padre e di una madre. Ma di che famiglia parliamo??? Non è meglio pensare alla capacità genitoriale delle persone? Un grazie enorme invece alle professoresse di Melito che hanno avuto il coraggio di assumersi la responsabilità di porre fine alle violenze. Anche questa è responsabilità genitoriale e senso di appartenere a una comunità. Un segno di speranza.
di Maria Silvia Sacchi – Fonte

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