L’ultima frontiera è forse stata raggiunta in una scuola dell’hinterland milanese: un interrogatorio collettivo, via chat, sull’epidemia da pidocchi. Una mamma voleva arrivare al nome del bambino “untore”: “Perché signori è la terza volta, qui qualcuno ha un chiaro problema d’igiene e voglio sapere chi è”. Ma il repertorio è variegato. C’è chi se ne serve per fare pubblicamente le pulci agli insegnanti poco graditi: “Marco è tornato a casa e mi ha detto che la maestra Elena ha risposto ad almeno due sms durante la lezione di matematica. È successo anche ieri. A voi risulta?”. E c’è pure chi si lascia andare a commenti offensivi sui bambini, senza troppa consapevolezza. E da Nord a Sud, i presidi lanciano l’allarme sui gruppi di classe creati su WhatsApp dai genitori: “Sono diventati un detonatore di problemi che aumentano i conflitti nelle scuole – avvertono – Troppo spesso mamme e papà li usano in maniera offensiva e smodata”.

Di solito, nascono subito dopo la prima assemblea di classe, quando un rappresentante, o il più attivo fra i genitori (ce n’è sempre uno), raccoglie i numeri di telefono e dà il via alla chat. Si chiamano “Quelli della seconda F”, o “I bambini di quarta D”, con piccole variazioni sul tema. Uno strumento comodo e immediato, che nasce con le migliori intenzioni per scambiarsi inviti alle feste di compleanno, preziose informazioni sui compiti per chi è a casa malato, sul tipo di cartoncino (“Era liscio o ruvido?”) chiesto dalla maestra di Educazione all’immagine. Ma anche: “Scusate, mi potete confermare che domani si esce un’ora prima?”.

In molte scuole, ogni sezione ha il suo gruppo. “Peccato che rischino di diventare armi a doppio taglio”. A parlare è Laura Barbirato, preside del comprensivo Maffucci di Milano, che ha mandato una lettera a tutti i genitori per metterli in guardia sull’uso scorretto di questi gruppi e ha convocato un’assemblea ad hoc sul tema. “In chat – spiega – questioni nate dal nulla possono trasformarsi in problemi enormi. Sono una cassa di risonanza micidiale e pericolosa: in tanti scrivono con leggerezza, senza riflettere sulle conseguenze”. Mario Uboldi, che dirige l’istituto milanese Giovanni Pascoli, racconta di essere stato costretto più volte a placare liti fra i genitori, o feroci polemiche contro insegnanti, dopo che mamme o papà si erano presentanti a scuola con in mano lo screenshot della conversazione collettiva. Alla fine, con una circolare, ha vietato categoricamente ai docenti di prender parte alle discussioni, ricordando la riservatezza cui sono tenuti. “A volte gli insegnanti provano a fare da moderatori – spiega – . Ma non va bene: rischia d’innescarsi un meccanismo ancora più pericoloso”. Così, alle maestre ha scritto: “La comunicazione corretta fra insegnanti e genitori avviene tramite diario e lo scambio di mail e telefono cellulare può essere accettato solo fra insegnanti e rappresentanti di classe, per informazioni urgenti”.

Il problema è avvertito ovunque, non solo a Milano. Nelle scuole del comprensivo dei quartieri Savena e San Donato di Bologna, durante un consiglio d’istituto, una mamma ha raccontato il profondo disagio provato nel leggere, all’interno del proprio gruppo di classe, frasi pesanti nei confronti di un bambino con una disabilità cognitiva. “Alcuni genitori avevano scritto a chiare lettere che le maestre dovevano essere più severe con lui – spiega amareggiata la dirigente, Filomena Massaro – citando il suo handicap”. La stessa cosa è successa nel comprensivo del quartiere Japigia di Bari: “Io cerco di convincere i genitori a non usare affatto questi strumenti – confessa la preside Patrizia Rossini – ma è una battaglia difficilissima”.

di Tiziana De Giorgio – Fonte

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