L’anonimato della madre che, stretta dalle difficoltà, ha deciso di abbandonare il bambino appena partorito affinché sia dato in adozione a persone disponibili a crescerlo, benché previsto e garantito dalla legge non può perdurare come una barriera ‘perenne’ nei confronti del figlio adottivo che vuole sapere la verità sulle sue origini nel caso in cui la madre naturale muoia e non possa essere interpellata sulla volontà di mantenere ancora il suo ‘segreto’ a distanza di 25 anni dalla nascita del figlio. Lo sottolinea la Cassazione con una sentenza che cerca di bilanciare il diritto all’identità personale da una parte, e, dall’altra, il diritto all’oblio della donna che compie una scelta così dolorosa che la espone alla riprovazione sociale e può avere ripercussioni anche sui suoi familiari.
Ad avviso dei supremi giudici, nel caso in cui la madre naturale muoia e il figlio adottivo non abbia dunque la possibilità al compimento del venticinquesimo anno di azionare la procedura dell’interpello, si può lo stesso rompere il ‘silenzio’ senza aspettare che passino cento anni dalla formazione del certificato di nascita affinchè cessi l’anonimato. E’ questo infatti il limite temporale fissato dalle norme per il mantenimento del ‘segreto’ sull’identità materna nel caso in cui la madre naturale non dia parere positivo all’interpello, un limite che – di fatto – ‘condanna’ il figlio adottivo a non sapere la verità e a vivere con un grande punto interrogativo. Ma gli ‘ermellini’ lo hanno buttato giù.
Per la Cassazione, infatti, il figlio adottivo avendo cura di fare un uso lecito delle informazioni acquisite sulla madre e non dannose nei confronti di eventuali altri familiari della donna, può accedere ai dati sull’identità materna senza aspettare di avere cento anni, ammesso che sia così longevo, nel caso in cui lei muoia. Con questa decisione – sentenza 22838 depositata oggi – la Suprema Corte ha accolto il ricorso di una figlia adottiva che aveva azionato l’interpello non andato però a buon fine perchè durante l’istruttoria la madre naturale era morta e la Corte di Appello di Torino si era opposta alla fine del ‘segreto’ sostenendo che il decesso non equivaleva alla “revoca dell’anonimato in quanto questa soluzione può essere solo frutto di una scelta legislativa”. Gli ‘ermellini’ hanno spazzato via il ‘no’ dei giudici piemontesi e “decidendo nel merito” hanno autorizzato la figlia adottiva, una donna adulta, “ad accedere alle informazioni relative all’identità della propria madre biologica”.
“Il diritto dell’adottato, nato da donna che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ad accedere alle informazioni concernenti la propria origine e l’identità della madre biologica sussiste e può essere concretamente esercitato anche se la stessa sia morta – afferma il verdetto della Cassazione – e non sia possibile procedere alla verifica della perdurante attualità della scelta di conservare il segreto, non rilevando nella fattispecie il mancato decorso del termine di cento anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, salvo il trattamento lecito e non lesivo dei diritti di terzi dei dati personali conosciuti”.