Quattro fratellini colombiani, tre di loro vengono adottati, il più piccolo resta a Bogotà: da allora non se ne sa più niente. Fino a qualche mese fa: fino a quando il più grande non lo ritrova, grazie a Facebook, e lo salva dal giro di droga in cui era finito.

Alan, 23 anni, è arrivato in Italia quando ne aveva 10. Insieme a lui riescono a partire anche due fratelli, ma il più piccolo resta in Colombia, per via di lungaggini burocratiche. Elaborare il distacco non è stato facile:

Ero il più grande dei quattro e per questo mi sentivo responsabile della sorte di tutti, anche della sua. Immaginare noi tre qui al sicuro e pensare a lui perso chissà dove per le strade di Bogotá non mi faceva dormire. La famiglia che ci aveva accolto mi rendeva felice, ma il destino del mio terzo fratello mi angosciava terribilmente. Finché ero piccolo potevo far poco, se non tenermi dentro il mio dolore, ma poi, aiutato dai miei genitori, sono riuscito a trovare su Facebook la direttrice dell’istituto dove eravamo stati ospitati in attesa dell’adozione. Lei mi aveva sempre trattato come un figlio e anche a distanza di così tanto tempo ha deciso di aiutarmi a cercare mio fratello. Non sapevo bene neanch’io cosa mi aspettavo da questa ricerca: volevo vederlo? Incontrarlo? So solo che volevo sapere che fine aveva fatto, perché non saperlo era un peso insopportabile.

Alan non ha sofferto invano per tutti questi anni: il suo dolore e la sua preoccupazione sono serviti per salvare il fratellino, che nel frattempo era cresciuto e finito nel giro della droga.

Alan, anche se in quel momento non ha la possibilità di raggiungerlo in Colombia, decide di occuparsi del fratello lontano. Prima lo convince a entrare in una comunità di recupero per tossicodipendenti, poi a fare la leva obbligatoria in modo da tenersi lontano da brutti ambienti. «Con l’aiuto dei miei genitori italiani sono riuscito anche a fargli riprendere gli studi e a ottenere un diploma, ma non mi sentivo ancora pronto a incontrarlo».

Alla fine però il momento del primo incontro arriva. Alan racconta di aver avuto paura: parlare in una lingua che negli anni non padroneggia più molto bene con un fratello di cui quel poco che si sa non è niente di buono rendono l’atmosfera piuttosto tesa:

«Ci siamo dati appuntamento in un centro commerciale a Bogotà, abbiamo mangiato insieme, ma è stato un incontro “freddo”. Non ci siamo neppure abbracciati, ci siamo salutati come due sconosciuti, quali in realtà eravamo».

Eppure quell’incontro ha cambiato la vita del fratello di Alan. L’aiuto di un membro della famiglia, la possibilità di continuare gli studi e il pensiero di qualcuno che,seppur dall’altro lato del mondo, si preoccupava per lui, ha contribuito a quella svolta che da solo non avrebbe mai potuto prendere:

«Mi ha detto che per anni si era lasciato andare perché si sentiva solo al mondo. Si drogava con il peggio del peggio, il paco, una droga ottenuta dagli scarti della cocaina. Tutto è cambiato quando ha saputo che dall’altra parte del mondo c’era un fratello che pensava a lui e lo aveva cercato. Questo, e solo questo, mi ha detto, l’aveva convinto ad accettare di entrare in comunità».

Il lieto fine nasconde però un retrogusto amaro. Dopo il fratello, infatti, Alan è venuto a contatto anche con i suoi genitori biologici. L’impatto però non è stato quello che lui aveva immaginato per tutti quegli anni.

«Sono venuti a sapere non so come dell’incontro e hanno deciso di mettersi in contatto, ma non è stata una bella esperienza». Per chi è stato adottato il rapporto mentale con i genitori biologici è un buco nero per niente facile da gestire. Per Alan è difficile raccontare, fa una pausa, prende tempo: «Avevo vissuto tutta la vita con un vuoto nel cuore. Negli anni mi ero costruito un’immagine ideale, ma quando ho avuto la possibilità di vederli, quell’immagine si è frantumata in un attimo. Erano due estranei». Poi con un sussurro, quasi parlando tra sé: «Come se non bastasse, hanno pensato bene quasi subito di chiedermi dei soldi. Anche per questo ho deciso di chiudere i contatti». Quell’incontro però, anche se traumatico, è stato decisivo. «Ho finalmente riempito il vuoto che sentivo nel cuore da tanti anni ed è stato il modo per capire definitivamente che i miei genitori erano quelli che mi avevano adottato».

Alan ha raccontato la sua storia in occasione di un incontro organizzato dall’Istituto La Casa (uno degli enti italiani che si occupa di adozioni internazionali), parlando a proposito del ruolo dei social network nella ricerca delle proprie origini.

«Tutti i ragazzi adottati, ciascuno a proprio modo, a un certo punto sentono il bisogno di sapere da dove vengono. I social hanno rivoluzionato le cose rispetto a qualche anno fa. Non servono più ricerche negli archivi, ora basta battere un nome sulla tastiera. E mi fa ridere la legge italiana che fissa a 25 anni l’età in cui un ragazzo adottato può chiedere notizie sulle sue origini. A 14 anni con qualche clic si è in grado di fare da soli quello che la legge nega».

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