“Avevo 31 anni quando muovevo i primi passi per avere un figlio attraverso l’adozione, oggi ne ho 38 e so che molto probabilmente dovrò rinunciarvi per sempre. Il tempo che passa per quelli come noi è la speranza che piano piano svanisce, più ancora del denaro speso inutilmente, quando invecchi sai che non potrai più avere una famiglia come la desideravi”.
Il personaggio/Bernardi, l’uomo dalle mille vite
L’inchiesta/Cento coppie hanno speso fino a 10mila euro
Anna vive a Reggio Calabria. È una delle anime di Family for Children, l’associazione nata per dare voce alla rabbia delle coppie italiane che si sono rivolte a Enzo B per l’adozione internazionale, e che dopo molti anni di attesa si ritrovano ancora al punto di partenza. Tutte le quote sono già state versate, fino a 10 mila euro a coppia, ma i bambini, in Italia, non sono mai arrivati. “Quasi tutte le famiglie dell’associazione si sono affidate a Enzo B per adottare in Etiopia. Enzo B ha decine di incarichi sospesi da anni, ha preso le quote da tutti ma molti fascicoli non sono mai neppure stati inviati in Etiopia, sono rimasti nei cassetti degli uffici anche per cinque anni”.
Cosa avete fatto nell’attesa?
“Abbiamo lasciato passare i primi due anni in silenzio, perché sapevamo che il tempo necessario era all’incirca quello. Ad aprile del 2012 abbiamo affidato l’incarico a Enzo B, attraverso un ente calabrese con cui aveva una collaborazione, e per molti mesi abbiamo aspettato. Avevamo già ottenuto, ovviamente, il decreto del tribunale di Reggio”.
Dopo due anni come vi siete mossi?
“Nel 2013 abbiamo cercato Enzo B per sapere come andava la nostra pratica. Abbiamo fatto un colloquio via Skype con la responsabile per l’Etiopia. Ma abbiamo intuito quasi subito che c’era qualcosa che non funzionava”.
Avete mai partecipato a incontri? Corsi di formazione? Colloqui con il personale di Enzo B?
“Non li abbiamo mai incontrati di persona. Può sembrare incredibile ma è così. Abbiamo affidato le sorti della nostra famiglia a persone con le quali non c’è mai stata neppure una stretta di mano. I corsi di formazione per esempio erano compresi nella quota di servizi per l’Italia, ma non li abbiamo mai fatti”.
Come avete incontrato allora queste famiglie?
“In un’unica circostanza, a Roma, dove Enzo B ci ha convocati. La situazione era già molto critica e i responsabili dell’Ente ci hanno riuniti tutti insieme per comunicarci le novità”.
Quanto tempo è passato e cosa vi hanno detto?
“Era già il 2014. In teoria, secondo il protocollo, avremmo dovuto essere a un passo dalla meta. In quella circostanza, invece, ci dissero che l’ente era in difficoltà finanziaria, che era in ritardo con gli stipendi dei dipendenti e che dall’Etiopia c’era uno stallo delle adozioni. Invece so che non è così perché un altro ente, il Centro aiuti per l’Etiopia, cui adesso vorremmo rivolgerci, ne ha portate a termine 50 di adozioni, e solo nel 2016”.
Voi, nel frattempo, quanto avevate pagato?
“Cinquemila euro per la quota Italia e 4500 per i servizi in Africa. E poi, in più, ci sarebbe stato da pagare i viaggi, il soggiorno e tutti i servizi del post adozione. Avevamo messo in conto circa 25 mila euro e due anni di tempo. Ma i primi 10 mila se ne sono andati così, ed è dura pensare di ripartire da zero”.
La Commissione per le adozioni internazionali è a conoscenza del vostro caso?
“Sanno tutto. Sono anni che chiamiamo e scriviamo raccomandate. Abbiamo anche partecipato a una riunione con un delegato del ministro Maria Elena Boschi che era presidente Cai. Ma in definitiva tutte le nostre richieste sono cadute nel vuoto”.
Cosa dovrebbero fare?
“La Cai è l’organo del governo che ha il compito di vigilare sulle adozioni internazionali. Nel disgraziato caso di Enzo B potrebbe, per esempio, chiedere copia dei bonifici che l’ente ha inviato in Etiopia con il denaro che ha ricevuto dalle famiglie. Loro sanno ogni cosa ma non sono mai intervenuti. E neppure adesso bloccano Enzo B quando è evidente che non darà mai i bambini per i quali gli hanno affidato l’incarico”.
Da dove ripartite oggi?
“Noi siamo pronti a seguire la famiglia che ha presentato l’esposto a Torino anche se sappiamo che questo potrebbe voler dire non adottare mai. Siamo disarmati da un Paese che suggerisce questo messaggio: chi adotta compra un bambino e deve essere disposto fare qualunque cosa. Mio marito ed io abbiamo messo un punto. O cambia il sistema o noi non siamo disposti ad andare avanti”.
di Ottavia Giustetti – Fonte