Le testimonianze dei ragazzi accolti in strutture di accoglienza di Cnca e Villaggio Sos raccolte in una pubblicazione del Garante dell’infanzia. La cosa più importante? “Che somigli a una casa”. “L’educatore non è come un operaio. Anche se non lavora pensa sempre a te”

“Non è bello finire in comunità perché vuol dire che non hai una famiglia per bene come gli altri. Sei diversa e questo te lo porti sempre dentro. Poi ci si prova a starci ma è difficile. Oggi quando vedo i miei genitori non ho più paura ma nessuno può chiedermi di perdonarli. Quando sarò grande e avrò un figlio, non sarò come loro”.

Giulia (nome di fantasia) è una dei 22 mila minori che vivono in comunità, lontano dalle loro famiglie. A dar voce alla sua storia e a quella di altri ragazzi è stata la Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni, istituita presso l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. Un gruppo di lavoro che ha raccolto le testimonianze di operatori e minori per capire come migliorare la rete di accoglienza e creare standard condivisi a livello nazionale. L’obiettivo è quello di garantire a tutti i bambini un contesto di vita adeguato con operatori preparati, capaci di ascoltare le loro esigenze.

Per questo è stato chiesto a quattro gruppi di ragazzi accolti in tre comunità gestite da organizzazioni del Cnca e in un Villaggio Sos di raccontare in prima persona la loro esperienza. Alla domanda quale è la questione più importante, i minori intervistati non hanno dubbi: è vivere in una struttura che somigli ad una casa. “Il posto dove vivono deve essere capace di accogliere anche la famiglia di origine”, spiega Liviana Marelli, rappresentante del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca). “Deve essere un luogo aperto, fatto di spazi ricreativi, dove ospitare i loro amici. Una vera casa”. Come afferma Giacomo: “All’inizio un po’ ci si vergogna di dire che siamo in comunità perché la gente ti guarda come un marziano e quasi ha paura. Poi quando vengono in comunità dicono: “ma è una casa! Hai la tua stanza, non ci sono le sbarre!”.

Fondamentale è, poi, il rapporto con gli educatori. Angelo racconta: “Sono sempre presenti e non in balia dei nostri voleri, ma attenti ad ascoltare i nostri bisogni”. Non mancano però di evidenziare i difetti: “Non mi piacciono perché mi svegliano la mattina, mi fanno fare i compiti, non cucinano quello che voglio e non posso vedere la tv tutto il giorno”, afferma Andrea.

Luca, invece, sottolinea come “il lavoro dell’educatore non è come fare l’operaio. L’educatore deve tenerci al suo posto, deve tenerci ai ragazzi, al rapporto con loro. Non ti deve tradire mai, anche se lo mandi a quel paese. Ecco: un buon educatore deve essere così”. Anche Fabrizio spiega che “gli educatori non lavorano e basta. Anche se non è di turno, ti pensa e fa delle cose per me e se lo chiami viene”. Gli operatori sono l’unico punto di riferimento dei ragazzi accolti in comunità, per questo secondo Marelli è importante “evitare il turn over”.

Alla domanda cosa cambieresti della comunità dove vivi, Pietro dice sicuro: “Voglio uscire più spesso, telefonare di più alla mamma e avere una paghetta più alta”. Alessia, invece, non ha dubbi: “Voglio un lavoro vero e sapere dove andare quando non sarò più qui”.

Alla fine delle interviste, tutti i minori hanno scritto un pensiero sulla loro esperienza in comunità e lo hanno inviato al Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Vincenzo Spadafora. “Non volevo stare in comunità. Avevo paura ed ero arrabbiato. Ci vuole tempo per abituarsi e capire che ci si può stare bene. Capisci che può essere utile solo dopo, quando le cose della tua vita iniziano ad essere meglio. Sono passati 5 anni ed oggi sono maggiorenne ma non voglio tornare a casa dei miei genitori anche se oggi ci sto anche bene”, racconta Matteo. Marisa, invece, ricorda le difficoltà dei primi periodi: “Quando sono arrivata in comunità ero cicciottella e timida e a volte non tornavo a casa a dormire. Il primo giorno mi sono chiusa in camera, perché mica ti puoi fidare subito delle persone, è anche sbagliato. A casa mia è sempre stato un casino e ci si vuole bene a modo nostro (…). Io credo che mi sono salvata, i miei fratelli no”.

Giuseppe, invece, non ha mai accettato la vita in casa famiglia: “Quando mi hanno detto che sarei entrato in comunità sono scappato. Mi hanno ripreso i carabinieri e gli educatori. Mi sentivo come un eroe braccato. Ci sono stato bene da subito in comunità ma non mi ci sono mai abituato. Sono scappato tante volte e sono sempre venuti a cercarmi. Non i carabinieri però: ti senti meglio se ti cerca qualcuno con cui vivi”.

Il primo passo per Silvia è farsi aiutare dagli altri. “Mettendo il broncio e alzando delle mura nei confronti dei servizi sociali e degli operatori ho ottenuto poco ed ho avuto molti scontri. Nel momento in cui mi sono aperta, ho accettato la situazione in cui ero e mi sono fatta aiutare, ho notato che sebbene la strada era sempre in salita, percorrerla era più semplice. Questo perché ero più serena e non si lavorava più ognuno per conto proprio ma insieme”. (Maria Gabriella Lanza)

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