Tutti gli adolescenti si interrogano sulla propria identità. Per i ragazzi adottati (e i loro genitori) può aprirsi una crisi profonda, ma necessaria

Sono soltanto un fantasma! Non lo vedi, mamma?». Serghiey è arrabbiato. L’angoscia lo coglie all’improvviso, la madre è impreparata. Serghiey è un adolescente, adottato. Se l’adolescenza è una seconda nascita, quella sociale, quando si è adottati è la terza: biologica, adottiva e sociale. Con l’aggravante di dover fare i conti con un passato fumoso. Meraviglioso oppure inquietante. Sì, perché una madre sconosciuta può essere tutto: una principessa o una prostituta. Una storia ignota può aprire mondi fantastici o terrificanti. Come chi vede il film Sliding doors, il ragazzo adottato si chiede: come avrei potuto essere se fossi ancora là, con i miei genitori di nascita? Li chiamano così gli anglosassoni, birth parents. Un’espressione efficace, che definisce i ruoli. Come sembra lontana da quell’Italia in cui ancora si organizzano incontri televisivi strappalacrime, distinguendo tra genitori “veri” e non. Che cosa vuol dire? Chi ha cresciuto quei 150mila bambini adottati dalla fine degli anni 90, oggi adolescenti, sarebbe un genitore fasullo?
La mamma di Serghiey è Anna Genni Miliotti, che della cultura dell’adozione ha fatto una missione (adozioneinternazionale.net). Ha appena pubblicato, per Franco Angeli, Adolescenti e adottati: maneggiare con cura. E, con passione, ci descrive il vissuto di ogni adolescente adottato. Anche dei suoi figli. A chi somiglio? Come diventerò?
Se non come i genitori adottivi, come quelli biologici. Ma i genitori biologici chi sono? «Se ogni adolescente è alla ricerca della propria identità, chi è stato adottato deve fare i conti con un’estraneità più forte», sottolinea Genni Miliotti. «Davanti allo specchio è da solo, senza nessuno con cui condividere un Dna». In una fase della vita in cui si desidera solo sparire nel gruppo, i capelli crespi, il viso così bianco da non abbronzarsi mai oppure gli occhi a mandorla sono segni distintivi troppo evidenti per passare inosservati.

E tu, genitore, non lo riconosci più. È diventato un altro, con i tratti della sua terra d’origine. Che in Italia spesso sono quelli dei più emarginati. Perché l’egiziano e l’ucraina quasi mai sono il commercialista o la dottoressa, più spesso il lavavetri e la badante. Guardare i propri figli e provare un senso di estraneità: capita a tutti. Sentire una voce estranea dal piano di sopra e vedere la sagoma di un uomo che scende le scale. Con l’adolescenza è così, d’un tratto. Ma qui è più forte. Avresti voluto un avvocato come lo zio o una brava pianista come la nonna. E invece c’è Katiuscia, che prende brutti voti, non legge, non ama la musica, non arriverà mai alla laurea. O anche peggio.
«Mio figlio mi sfida ogni giorno con urla, parolacce, insulti. Mi dice che non siamo i suoi genitori, che non abbiamo alcun diritto». Alessio di notte non dorme, aspetta che squilli il telefono: ospedale o polizia? Anton si è unito alle bande di sudamericani: le sue bravate gli sono già costate due fermi. «È una prova di nervi continua. Sospensioni, sanzioni disciplinari. Quella che prima era semplice esuberanza, adesso è diventata maleducazione», si sfoga una mamma. Illumina e commuove la lettera della nonna adottiva di E. in Adolescenti e adottati. Quanta sofferenza da entrambe le parti. Ogni giorno il fallimento è più profondo. La bambina che giocava libera in spiaggia ora, rinchiusa al quarto piano di un palazzo milanese, paga un dazio troppo pesante. E i suoi genitori e nonni adottivi con lei. Nottate fuori tra alcol e pasticche. E chi è a casa che aspetta finisce per crollare, magari per separarsi dal coniuge. La letteratura lo conferma: molti ragazzi adottati hanno problemi di comportamento. Lo sottolinea Laura Benini, psicologa dello sviluppo all’Università Cattolica di Milano, in una ricerca pubblicata sulla rivista Minorigiustizia: in media questi adolescenti sono più a rischio di aggressività, depressione, ansia. «Difficoltà di adattamento che possono essere lette, dai ragazzi stessi, come una prova della propria inadeguatezza, quasi una causa dell’abbandono iniziale. I sentimenti sono spesso ambivalenti: provano affetto per i genitori adottivi, ma la rabbia per non riuscire a soddisfare i loro desideri sfocia in una profonda aggressività verbale e fisica».

Certo, la gravità della crisi dipende da molte cose: da quanti anni si è in Italia, dall’esperienza precedente, ma anche dall’atteggiamento della nuova famiglia verso le radici di quel ragazzo che viene da lontano. Ci sono ancora oggi genitori che non dicono, insegnanti che non sanno. Soprattutto quando l’adozione è nazionale, i tratti somatici simili, il bambino molto piccolo. In realtà la legge italiana stabilisce il diritto del figlio di essere informato dell’adozione. Come e quando, però, lo decidono i genitori. Non c’è la stessa lungimiranza sulla possibilità di conoscere il nome della madre biologica, quando il figlio non è stato riconosciuto. Nonostante diverse proposte di legge, l’impegno di molti (su Facebook, il gruppo La punizione dei cento anni) e una recente sentenza della Corte Costituzionale che mette in discussione la segretezza al momento del parto, ancora oggi deve passare un secolo, letteralmente, prima di poter sapere il nome di chi ha avuto un bambino e l’ha lasciato senza riconoscerlo.

E invece, quello della ricerca delle origini è un tema cruciale. «Il profondo trauma dell’abbandono riemerge nell’adolescenza, quando si acquisisce la capacità di riflettere sulla propria storia», sottolinea Marco Chistolini, responsabile scientifico del Ciai, Centro italiano aiuti all’infanzia (ciai.it) e autore, per Franco Angeli, di La famiglia adottiva. Impegnato nella costruzione dell’identità, l’adolescente ha più che mai bisogno di far chiarezza sul proprio passato. Le storie di adozione sono triangoli: i genitori di nascita, quelli adottivi e il bambino. L’angolo dei genitori biologici non va mai dimenticato. Può finire sullo sfondo, ma si ripresenta, a tratti. Quasi sempre nell’adolescenza. «Nella quotidianità non c’è posto per continuare a guardare indietro», riflette Chistolini. «Però, farlo è determinante. In alcune fasi della crescita, chiudere in cantina le esperienze precedenti è rischioso». È il caso di un giovanissimo etiope scappato di casa due volte: la seconda è stato trovato suicida. Era andato alla ricerca del fratello. Ma quando è tornato la prima volta, invece di sostenere la sua richiesta, la famiglia ha fatto dire una messa, per ringraziare del suo ritorno. Casi estremi? Di certo, stabilire come comportarsi non è semplice. Tacere è più comodo per tutti, ma fa danni. Seppellisce le emozioni, ingigantisce le fantasie. Quanti genitori adottivi hanno lasciato che il ragazzo vedesse i documenti dell’adozione, quelli in cui si rivela il luogo in cui è stato accudito, se di accudimento si può parlare, nei primi anni di vita? I ragazzi non fanno domande. Per estrema lealtà verso il nucleo che li ha accolti o perché il filo del dialogo si è spezzato. «Adozione è vivere nella menzogna, dicendo alla tua famiglia che non t’importa chi siano i tuoi genitori biologici per proteggere i loro sentimenti», confida una giovane. E le fa eco un’altra: «Una vita di bugie. Non vivo neppure nella mia nazione d’origine. Ero irlandese, adesso sono italiana. Lo vedo, che sono diversa: i capelli, la pelle… Me lo dice la carne».

Un aiuto potrebbe venire dal fare gruppo. Non per creare un ghetto di adottati, ma perché condividere è liberatorio. «All’ultimo meeting di figli adottivi, è emerso forte il desiderio di trovarsi», evidenzia Chistolini, che annuncia il prossimo appuntamento a Firenze il 14 giugno. Ancora poche, però, le iniziative di questo tipo. Allo stesso modo, scarseggia il sostegno alle famiglie adottive, seguite per legge i primi anni e poi lasciate a se stesse nel momento dell’emergenza. Sono troppi i genitori e gli operatori che non lavorano sulla memoria. A partire dal giorno in cui arriva il figlio. Incalza Genni Miliotti: «Avete conservato qualche oggetto della sua vita precedente, coltivato il ricordo delle sue origini? O magari gli avete persino dato un nome diverso, perché pronunciarlo sarebbe stato più semplice?». Deve finire il tempo delle favole, della cicogna che ha sbagliato indirizzo. Chi vorrebbe crescere pensando di essere frutto di un errore?

SULLE TRACCE DEL PASSATO
Mezza moneta, un orecchino, bigliettini chiusi con la ceralacca: “Datele nome Maria Felice, battezzatela voi”. Sono gli oggetti e i messaggi nelle vetrine del museo dei ricordi dell’Istituto degli Innocenti di Firenze. Dal 1419, la nostra è una cultura di abbandono e di accoglienza, impregnata di un umanissimo desiderio di ritrovarsi. Andare alle origini, trovare tracce: molto più semplice con Internet, sempre doloroso. L’adozione non è una bella favola. «Sapere è un diritto che è vergognoso negare. Io voglio conoscere una cosa che mi appartiene», spiega Alessia. Ed è proprio per fare luce sul passato che, da alcuni anni, il Ciai organizza viaggi: in Etiopia, in Colombia. «È un’esperienza che permette di impossessarsi di un tassello importante della propria vita», spiega il responsabile scientifico Marco Chistolini. «Si va per conoscere o riconoscere il proprio paese, magari un istituto, un volto. Per chiudere il cerchio. C’è chi parte con un amico, chi con i genitori adottivi. Come Serghiey, tornato in Russia con la madre Anna Genni Miliotti, che ha raccontato questo viaggio in Ho deciso di tornare (Libriliberi).

(DI DANIELA CONDORELLI) – Fonte

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