I numeri in Europa
È un «male comune» europeo ma in questo caso non c’è nemmeno un pizzico di «gaudio». Crollano le adozioni internazionali, aumentano le coppie in attesa: ottenere l’affidamento di un bambino è spesso un sogno che resta irrealizzato. L’Italia non è esclusa da questa perturbazione. In cinque anni i nuovi arrivi di stranieri in famiglia si sono quasi dimezzati, passando dai 1.410 del 2010 a 850 nel primo semestre del 2015. Una minoranza rispetto ai circa 10 mila nati con tecniche di procreazione medicalmente assistita. Facendo il calcolo degli uni e degli altri probabilmente sta per verificarsi il sorpasso, già avvenuto in Spagna, dei figli della provetta su quelli adottivi. Tra i motivi che portano i genitori infertili verso i centri contro la sterilità c’è anche il timore delle attese interminabili per avere un bimbo dall’estero. E infatti ad avventurarsi lungo l’impervia strada dell’adozione sono sempre in meno: 3 mila coppie. La situazione interna non è migliore, nel senso che prendere con sé un orfano è un’impresa. Il motivo della crisi globale? Alcuni analisti lo attribuiscono con molto ottimismo al miglioramento delle condizioni dei minori nei Paesi poveri. Ma in realtà in Africa l’epidemia da virus Ebola ha seminato migliaia di morti, spesso madri e padri insieme. I bambini rimasti soli sono diventati la conseguenza più drammatica dell’ondata distruttiva. E allora da cosa dipende l’inclinazione della curva? In parte dal fatto che certi governi, un tempo molto generosi nell’autorizzare adozioni, sembrano diventati gelosi dei loro piccoli abbandonati. In parte esistono difficoltà pratiche per le coppie a ottenere l’idoneità nei loro Paesi. In questo il nostro apparato burocratico non brilla.
L’Ostacolo dei Costi
Gli enti autorizzati a seguire le pratiche per conto delle famiglie sono oggetto di una serie di critiche pesanti: in quattro anni non sono stati avviati rapporti con Paesi nuovi per aprire canali alternativi. E così vengono avvantaggiati gli aspiranti genitori di Francia e Spagna, dove le autorità sono più leste nell’intavolare il dialogo. Secondo ostacolo, i costi. Prima di riuscire ad avere con sé un bimbo della Russia già dato in affidamento, sono necessarie quattro trasferte, in Brasile bisogna attendere due mesi. Le spese lievitano e si aggiungono alle tasse locali, ai costi burocratici, ai servizi da pagare agli enti per l’assistenza. Infine le difficoltà burocratiche che finiscono per scoraggiare i più motivati. «Il disinteresse della politica ha raggiunto i massimi storici», tuona Marco Griffini, fondatore di Aibi, una delle associazioni con il patentino. In un’interpellanza datata 2 febbraio e ancora senza risposte, la deputata Michela Brambilla (FI), presidente della Commissione infanzia, attribuisce la responsabilità della crisi all’inoperosità della Commissione adozioni internazionali, che opera presso la presidenza del Consiglio, ed è coordinata da Silvia della Monica: «Non si sono mai riuniti tranne che per l’insediamento. Da più parti vengono denunciate gravi anomalie nella gestione dell’organismo che compromettono il buon funzionamento del sistema». Non è stato reso pubblico, se esiste, l’aggiornamento dei dati sugli arrivi. Ma Brambilla parla anche di «burocrazia interna farraginosa, rallentamenti e blocchi subiti da famiglie che attendono bambini provenienti da Colombia, Mali, Etiopia, Kirghizistan e Repubblica del Congo».
Il governo di Kinshasa
La speranza in un tweet. Ieri la buona notizia si è diffusa in un battibaleno. «Il governo della Repubblica democratica del Congo ha ripreso a esaminare i fascicoli per le adozioni richieste da genitori stranieri: la situazione comincia a sbloccarsi», racconta Marco Griffini, presidente dell’ente Aibi. Potrebbe essere vicina la conclusione di una storia penosa vissuta da un centinaio di famiglie italiane, in attesa di abbracciare il loro bambino di origine africana. Dal 2013 in pratica le autorità di Kinshasa hanno chiuso le frontiere per motivi non dichiarati ufficialmente. Due episodi avvenuti in Canada e negli Stati Uniti hanno scatenato questa reazione. Il primo, un bambino adottato da un uomo single che una volta tornato a casa ha annunciato di essere gay. Il secondo: una coppia che ha ceduto il figlio adottivo a una seconda famiglia secondo un meccanismo legale, il rehoming, vale a dire il ricollocamento a casa. In questi anni di blocco la legge nazionale di un Paese popolato, secondo Unicef, da 7 milioni e mezzo di minori abbandonati è stata rivista in termini restrittivi. Per essere ascoltate, alcune famiglie vittime di ritardi e mancanza di comunicazioni si sono incatenate il mese scorso davanti al Parlamento. Nel mondo sono circa 1.300 le coppie che stanno vivendo il dramma di quelle italiane.
Almeno un anno e mezzo
E a casa nostra cosa succede? Difficoltà e burocrazia anche qua. «Le attese sono interminabili — dice Monya Ferritti, presidente del coordinamento delle associazioni di familiari adottivi e affidatari —. Ci vuole almeno un anno e mezzo per dichiarare la disponibilità al tribunale dei minori». E poi? «Dipende dal tribunale. Alcuni lavorano velocemente, altri meno e ci sono differenze notevoli tra le Regioni. La lista delle coppie che aspettano è di 10 mila l’anno contro una media di mille bambini che lasciano le comunità educative. I neonati abbandonati dalle madri già durante la gravidanza o in ospedale, 300 l’anno, vengono attribuiti ai nuovi genitori in poche settimane. I minorenni con handicap e altre disabilità e i più grandi, adolescenti e preadolescenti, stentano a trovare casa: «Mancano servizi per le famiglie, sostegni economici e soprattutto formazione», spiega Monya Ferritti. Al primo posto tra le cause che rendono molto scivolosa la via dell’adozione nazionale c’è, secondo le associazioni, l’assenza di una Banca-dati unica presso il ministero della Giustizia che avrebbe dovuto nascere nel 2000. Bambini e famiglie sarebbero stati registrati in un unico elenco in modo da favorire i migliori abbinamenti da parte dei tribunali tra genitori e «fuori famiglia». Ora c’è un sistema frammentato.
In Albania si “risparmia”
Per le adozioni internazionali tutto passa attraverso enti autorizzati dal ministero di Giustizia in base a requisiti stabiliti dalla legge. In Italia compaiono nell’elenco 62 organizzazioni riconosciute rispetto alle 11 della Germania e alle 30 della Francia. Nella realtà alcune delle agenzie non sono più attive anche a causa del calo delle richieste. Una «vera e propria paralisi», insistono gli addetti ai lavori. Il costo per le famiglie è sostenuto. Il Paese meno caro è l’Albania. Tra viaggio, soggiorno, spese legali e tecniche (ad esempio l’ingaggio di un interprete) e ciò che spetta all’ente per seguire la trafila si va dai 10 ai 15 mila euro. Almeno il doppio ce ne vogliono invece per accogliere un bambino da Haiti o dalla Russia. La coppia candidata deve sostenere una serie di colloqui e sperare di ottenere l’idoneità da parte del tribunale dei minorenni anche in base al parere favorevole degli assistenti sociali. Se la richiesta non viene accettata, ricorrere in appello è praticamente inutile. I tempi di attesa si allungano a dismisura e anche se nel 99% dei casi la sentenza è favorevole, un decreto di adozione conseguito in seconda battuta genera solitamente diffidenza. I Paesi di origine richiedono ulteriore documentazione per capire cosa ha portato al primo rifiuto di idoneità.
di Margherita De Bac – Fonte