Fango, freddo, sporcizia e baracche. Sono circa 20mila i minori rom che in Italia vivono in condizioni di povertà, negli insediamenti formali e informali tenuti nascosti dai centri cittadini. Sono i “figli delle baraccopoli”, per i quali l’aspettativa media di vita è circa dieci anni in meno rispetto al resto della popolazione. Di questi, secondo il censimento appena pubblicato dall’Associazione “21 luglio”, impegnata da anni nella promozione dei diritti delle comunità rom e sinte, 4.100 bambini si trovano solo a Roma, in una delle numerose baraccopoli della Capitale: 1.350 hanno tra zero e sei anni, 2.750 tra sette e 18 anni. E anche i campi formali, quelli progettati e gestiti dalle istituzioni, sono ormai in stato di abbandono.
La mappa delle baraccopoli romane
Oggi l’86% delle famiglie che vivono nei campi rom risiede nel Lazio, Campania, Piemonte, Lombardia e Toscana. E Roma rappresenta un po’ la capitale di questo “mondo di sotto”, dove si concentra il 20% (7.500) dei rom italiani in emergenza abitativa.
Le baraccopoli istituzionali di Roma sono sei: insediamenti formali, per lo più lontani dal centro, dimenticati da tutti. «Sono caratterizzate da un generale stato di abbandono», scrivono dall’Associazione 21 luglio, «dalla mancanza di interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, da un drammatico e costante aggravarsi delle condizioni igienico-sanitarie, da spazi inadeguati, asfittici e sovraffollati, da unità abitative in stato di grave deterioramento». Condizioni ben al di sotto dei requisiti minimi previsti dagli standard internazionali. Il 31 ottobre, poi, ha chiuso anche il centro di accoglienza per soli rom di via Amarilli, e il Comune ha trasferito tutti nelle baraccopoli.
Oltre ai sei campi istituzionali, ci sono poi i cosiddetti “campi tollerati” abitati solo da comunità rom, sparsi tra via del Foro Italico, via della Monachina e via Salvati. E oltre un centinaio di micro-insediamenti, senza servizi minimi, abitati soprattutto da rom provenienti dalla Romania, sgomberati più volte nel corso degli ultimi anni. Si trovano per lo più in luoghi nascosti e pericolosi: lungo il Tevere, coperti dai canneti lungo le strade a scorrimento veloce o accanto alle discariche. Qui le famiglie vivono in casette realizzate con teloni di plastica e cartoni, o dentro piccole tende da campeggio.
Tra questi campi, lontani dal Colosseo e dai palazzi della politica, vivono 4.100 bambini rom, di differenti nazionalità. Nascono e crescono tra le baracche, giocano tra cumuli di rifiuti e pozzanghere, tra cattivi odori e veleni. In condizioni igienico-sanitarie precarie e senza un’educazione continuativa.
Secondo i calcoli dell’Associazione 21 luglio, tra dal 2009 al 2015, tra i minori rom iscritti nelle scuole di Roma, uno su cinque non si è mai presentato in classe. E sui circa 1.800 iscritti, solo 198 hanno frequentato in maniera regolare. Il risultato è che uno su due è in ritardo scolastico. E la tendenza, a livello nazionale, è che un rom su cinque non ha mai iniziato un percorso scolastico, mentre uno su quattro non lo ha portato a termine.
I problemi di salute
Non solo. Per un bambino rom, spiegano dall’Associazione 21 luglio, vivere in un campo significa anche avere maggiori probabilità, rispetto a un coetaneo che vive in una casa, di crescere sottopeso, contrarre malattie respiratorie e incorrere più spesso in incidenti domestici. Più diffuse, tra i bambini rom, sono anche le cosiddette “malattie della povertà”: tubercolosi, scabbia, infezioni. Tra gli adolescenti è più elevato l’abuso di alcool e sostanze stupefacenti. E la “marginalizzazione spaziale” che causa vivere in questi ammassi di baracche lontani dai centri condiziona anche la salute psichica. I ragazzi finiscono per calarsi in pieno nell’unico ruolo che la società gli offre: quello di minori “diversi” e problematici.
Vorrei gentilmente che non spaccassero più questo campo perché se no per colpa loro io non posso più fare scuola
Un percorso a ostacoli
Per un minore rom che nasce oggi in un insediamento formale o informale della città di Roma la vita sembra già segnata. Il perché lo spiegano dall’Associazione 21 luglio. Un bambino che vive in un insediamento formale o informale della Capitale ha tra 30 e 40 volte probabilità in più di essere allontanato dalla propria famiglia e di essere dichiarato adottabile rispetto a un minore non rom. Può incappare in matrimoni precoci tra adolescenti, «fra l’indifferenza generale di operatori sociali e mediatori che davanti ad un atto proibito dall’ordinamento giuridico italiano lo condonano in nome di una presunta “tradizione culturale rom”». E spesso finisce anche a muovere i primi passi dietro le sbarre: nel settembre 2016, il carcere di Rebibbia a Roma ospitava 12 bambini con le loro mamme, tra cui dieci rom.
Un bambino che vive in un insediamento formale o informale della Capitale ha tra 30 e 40 volte probabilità in più di essere allontanato dalla propria famiglia e di essere dichiarato adottabile rispetto a un minore non rom
Gli sgomberi
Negli ultimi anni, spiegano dall’Associazione 21 luglio, «l’unica risposta che le autorità capitoline hanno fornito alle famiglie che abitano negli insediamenti informali della Capitale sono stati gli sgomberi forzati». Nel 2013 sono stati 54, coinvolgendo 1.250 persone di cui 690 minori. Nel 2014, su 34 sgomberi, sono stati coinvolti 630 minori. Nel 2015, gli sgomberi sono stati 80 e hanno coinvolto 1.470 persone, di cui 810 minori. «Una volta, uscendo da scuola ho trovato mia madre», è il racconto di un bambino. «Mi ha detto che era venuta la polizia e che la mia casa non c’era più. Mi sono messa a piangere». E ancora: «Vorrei gentilmente che non spaccassero più questo campo perché se no per colpa loro io non posso più fare scuola».
Gli sgomberi forzati per gli adulti significano l’interruzione improvvisa delle relazioni sociali, per i bambini vogliono dire smettere di andare a scuola. Il Comitato sui diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite ha chiarito come gli sgomberi debbano essere l’ultima risorsa, dopo aver esaurito tutte le altre possibili alternative, e solo quando vi sia stata una consultazione degli interessati e un preavviso, ma soprattutto la predisposizione di alternative abitative. Cosa che spesso non avviene. Dopo lo sgombero, di solito si rimane senza un tetto.
di Lidia Baratta – Fonte