Dopo quattro anni passati ad attendere che il parlamento si pronunci, è intervenuta la Corte di Cassazione per stabilire la legittimità del diritto di un figlio maggiorenne, nato da una donna che al momento del parto non lo ha riconosciuto e ha voluto rimanere anonima, a tentare di conoscere le sue origini. Si potrà quindi far interpellare dal giudice la donna che lo ha partorito per sapere se vuole ancora rimanere nell’ombra oppure dopo tanto tempo ha cambiato idea e vuole farsi conoscere.

I supremi giudici hanno così dato un’indicazione univoca ai tribunali dei minori che decidevano in ordine sparso dopo che la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittime le norme che impediscono, per motivi di privacy, l’interpello della madre. Una sentenza, la 278, che risale a quasi quattro anni fa e che ha indotto la Cassazione ad intervenire per il “perdurante silenzio del legislatore”. La richiesta di chiarimenti su una materia così delicata era arrivata alla Procura della Suprema Corte dall’Associazione dei magistrati per i minorenni e la famiglia, e il primo presidente Giovanni Canzio aveva incaricato le Sezioni Unite di pronunciarsi “data la particolare rilevanza della questione”.

In tutto il Paese, infatti, la questione stava generando criticità. I tribunali dei minori di Milano, Catania, Bologna, Brescia e Salerno – informa la sentenza 1946 depositata oggi dalle Sezioni Unite – hanno in questi quattro anni respinto la richiesta di interpello della donna che ha partorito ritenendo “necessario attendere l’intervento del legislatore per dare corso alla richiesta del figlio a che il giudice interpelli in via riservata la madre naturale circa la persistenza della sua volontà di non essere nominata”. Invece, i tribunali per i minori di Trieste, di Piemonte e Valle d’Aosta, e la Corte di Appello di Catania sezione per i minori, ammettevano “la possibilità di interpello riservato anche senza la legge” e questo “in forza dei principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza ‘Godelli’ contro Italia nel 2012) e per effetto della sentenza di illegittimità costituzionale del 2013”.

Con questo verdetto, che si articola di 28 pagine e riguarda un caso esaminato dalla Corte di Appello di Milano contraria all’interpello, la Cassazione – nel solco della Consulta che aveva giudicato irragionevole “la eccessiva rigidità” delle norme che precludevano per sempre la verifica “della perdurante attualità” della scelta dell’anonimato – ha cercato di coniugare “il diritto fondamentale del figlio a conoscere la propria identità, nel rispetto del contrapposto diritto all’anonimato della madre”.

Secondo il verdetto, nonostante “il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa”, esiste “la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione”. Le modalità da seguire, spiega la Cassazione, si possono dedurre “dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte Costituzionale, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorquando la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità”.

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