Il trauma secondo Van der Kolk

Non bisogna essere un soldato o visitare un campo di rifugiati in Siria o in Congo per imbattersi nel trauma. Il trauma accade a noi, ai nostri amici, alle nostre famiglie e ai nostri vicini. […] Le esperienze traumatiche lasciano tracce sia su larga scala (nella storia e nella cultura) sia nella quotidianità, all’interno delle nostre famiglie. Lasciano tracce anche nella mente e nelle emozioni, nella nostra capacità di provare gioia e di entrare in intimità e, persino, nella biologia e nel sistema immunitario. Il trauma colpisce non solo chi ne è direttamente interessato, ma anche i suoi cari.

Apre così Van Der Kolk il suo libro “Il corpo accusa il colpo”, sottolineando la natura complessa e complicata del trauma e le sue interferenze nella vita quotidiana, anche a distanza di molto tempo dall’evento traumatico. Il trauma, infatti, non intaccherebbe soltanto il senso di Sé, ma anche il senso che ognuno di noi dà al proprio vissuto, impedendoci di stare nel presente e di coinvolgerci quindi in relazioni soddisfacenti, perché costantemente sopraffatti da uno stato di paura persistente.

Partendo dall’osservazione clinica dei veterani di guerra presso la Boston Veterans Administration Clinic alla fine degli anni ‘70, l’autore spiega in modo dettagliato i diversi studi e le scoperte che hanno portato alle attuali conoscenze sul trauma e sul suo impatto su corpo, mente e cervello. In particolare, il senso di inutilità, il confronto con la forte vergogna, il numbing, ovvero l’ottundimento emotivo, la perdita di flessibilità mentale, sono solo alcuni dei sintomi riscontrati da Van Der Kolk nei suoi pazienti, sintomi che hanno origine dalla risposta di tutto il corpo al trauma originale. Le persone traumatizzate sono come bloccate all’interno del trauma stesso, si sentono vive solo rivisitando il loro passato traumatico e lo sovrappongono a qualunque cosa accada loro nel presente e preferiscono rimanere bloccate nella paura che già conoscono piuttosto che sperimentare nuove possibilità, rendendo quindi difficile, se non impossibile, poter contemplare un futuro migliore e nuovi obiettivi da raggiungere (deficit dell’immaginazione).

L’osservazione e la pratica clinica portano l’autore ad affermare che

…il trauma non è solo un evento accaduto una volta nel passato, ma si riferisce anche all’impronta lasciata da quell’esperienza sulla mente, sul cervello e sul corpo. Quest’impronta ha continue conseguenze sul modo in cui l’organismo umano gestisce la sopravvivenza nel presente. […] Cambia non solo il modo in cui pensiamo e ciò che pensiamo, ma anche la nostra effettiva capacità di pensare. Abbiamo scoperto che aiutare le vittime di trauma a trovare le parole per descrivere ciò che è accaduto loro è profondamente significativo ma, spesso, non è sufficiente. L’azione di raccontare la storia non modifica necessariamente le risposte fisiche e automatiche del corpo, che rimane ipervigile e pronto a essere assalito o violentato in qualunque momento. Perché avvenga un reale cambiamento, il corpo ha bisogno di apprendere che il pericolo è passato e di vivere nella realtà presente.

Il contributo delle neuroimaging alla comprensione delle memorie traumatiche

Queste nuove scoperte, insieme all’introduzione dei nuovi strumenti di neuroimaging, agli studi sempre maggiori sul funzionamento di ormoni e neurotrasmettitori e degli effetti della farmacoterapia su di essi, hanno portato ad una nuova prospettiva di conoscenza e studio del trauma.

Van Der Kolk dedica, infatti, un’ampia parte del manuale alla spiegazione degli studi di Brain Imaging e delle relative scoperte rispetto al funzionamento del cervello nelle persone traumatizzate. In particolare, l’autore spiega come in seguito all’esposizione di immagini, suoni o pensieri relativi al trauma passato, l’amigdala, ovvero la struttura cerebrale che gestisce la paura, reagirebbe con l’attivazione di uno stato di allarme anche dopo anni dall’evento, provocando l’attivazione di ormoni dello stress (cortisolo) e di impulsi nervosi che preparano il corpo all’attacco/fuga (aumento pressione sanguigna, battito cardiaco, frequenza respiratoria).

Al tempo stesso si avrebbe una disattivazione dell’emisfero sinistro che pregiudicherebbe la riorganizzazione delle esperienze in sequenze logiche e la traduzione in parole di pensieri ed emozioni (blocco dell’afflusso di sangue nell’area di Broca, ovvero lobo frontale sinistro, e spegnimento di tale area ogni volta che viene sollecitato un flashback).

Come già specificato in precedenza, il trauma influisce non solo sul cervello, ma anche a livello corporeo. Nella seconda parte del libro, Van Der Kolk si concentra su questo punto e su quanto il trauma influisca sulla consapevolezza del sè. In risposta al trauma stesso, i pazienti, infatti, avrebbero imparato a spegnere le aree del cervello che trasmettono le sensazioni e le emozioni legate alla paura, le stesse aree che nella vita di tutti i giorni sarebbero responsabili della registrazione delle emozioni e delle sensazioni che definiscono noi stessi e chi siamo. Per cercare di eliminare le sensazioni dolorose e di paura, i pazienti annullerebbero quindi la capacità di sentirsi pienamente vivi. Van Der Kolk afferma che

la mente ha bisogno di essere rieducata a sentire le sensazioni fisiche e il corpo ha bisogno di essere aiutato a tollerare e a godere del benessere del contatto.

A tale proposito è fondamentale rieducare le persone traumatizzate ad avere consapevolezza dei vissuti sensoriali provenienti dall’interno del corpo. Van Der Kolk insiste nell’aiutare i pazienti a familiarizzare con le sensazioni corporee e fisiche sottostanti alle emozioni.

L’influenza degli abusi sessuali nella vita adulta

La parte terza del libro è interamente dedicata agli abusi infantili e all’impatto che essi hanno sulla vita adulta delle persone traumatizzate. L’autore aveva osservato come alcune persone traumatizzate non ricordassero i loro traumi o comunque non fossero tormentati dal trauma stesso, ma si comportassero come se fossero costantemente in pericolo, mostrando difficoltà di concentrazione, irascibilità e odio verso se stessi e gli altri, difficoltà nel coinvolgersi in relazioni intime. Soffrivano inoltre di molti problemi di salute, mostravano comportamenti autolesivi e avevano dei “buchi” mnesici. Tutto questo li differenziava dai veterani di guerra e dalle vittime di incidenti per i quali era stata creata la diagnosi di PTSD (Post Traumatic Stress Disorder, introdotta nel 1980 nel DSM-III). Diversi studi ed evidenze hanno dimostrato come le conseguenze dell’abuso e della trascuratezza da parte della figura primaria di attaccamento siano estremamente complesse e abbiano un impatto devastante sulla persona, tanto da poter parlare di PTSD complesso.

In diverse parti del manuale, Van Der Kolk riprende l’importanza della diagnosi, perché solo attraverso una diagnosi accurata si può procedere all’utilizzo di trattamenti efficaci e, al tempo stesso, non si può creare un trattamento per una condizione medica inesistente. A tal proposito, l’autore muove una critica nei confronti della mancata inclusione del PTSD complesso all’interno del DSM-IV. Non disporre di una diagnosi di questo tipo, infatti, fa sì che le persone che affrontano ogni giorno le conseguenze di un abuso o di un abbandono, vengano inquadrate in una determinata diagnosi (ad esempio Depressione, Attacchi di Panico, Personalità borderline) che non descrive esattamente la loro reale condizione.

I percorsi di cura delle vittime di traumi

Il manuale si conclude con un’ampia parte sui percorsi di cura. Non esisterebbe un trattamento specifico per il trauma, perché come spiega Van Der Kolk

…nessuno di noi può essere in grado di trattare una guerra, un abuso, uno stupro, una molestia, o qualunque altro evento di simile portata. Ciò che è successo non può essere cancellato. Quello che si può fare, invece, è occuparsi delle tracce del trauma nel corpo, nella mente e nell’anima.

Ciò che viene curato non è quindi il trauma ma l’individuo che lo ha subito e la sua specifica risposta ad esso, riabituando la persona a sentirsi padrona di se stessa, del suo corpo e della sua mente (self-leadership).

L’autore presenta ottimi spunti di trattamento che uniscono un lavoro sul cervello, inteso ad esempio come riduzione dell’iperarousal, ad un lavoro sull’autoconsapevolezza corporea, focalizzandosi sulle sensazioni interne, ad esempio attraverso la mindfulness. Accanto a questi aspetti, è fondamentale ristabilire delle buone relazioni di aiuto, che facciano sentire la persona traumatizzata al sicuro.

Oltre alle diverse tecniche e agli approcci, ciò che non può mancare è la capacità di costruire una relazione terapeutica in cui il terapeuta sia sintonizzato sui vissuti delle persone traumatizzate, sulle loro emozioni e i loro pensieri, monitorando al tempo stesso i propri, in modo da stabilire un ambiente di fiducia e sicurezza.

Conclusioni

Oltre ad essere una piacevole e ottima lettura per tutti, questo manuale rappresenta una buona integrazione di tutte le attuali conoscenze sul trauma, approfondite da osservazioni cliniche e da letture critiche dell’autore.
Per i terapeuti rappresenta una buona fonte di supporto per la comprensione delle manifestazioni cliniche delle persone traumatizzate e offre validi spunti di intervento.

Fonte

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