C’è un gran disordine sotto il cielo, ma non sempre fa male al cuore. Si parla tanto di maternità surrogata, di inseminazione artificiale e di adozioni gay, facendo una gran confusione. Anche perché l’adozione la richiedono soprattutto le coppie etero, così come la pratica della maternità surrogata. Il nostro Paese è sempre capace di rendere tutto più difficile. Anche quando si desidera un bambino e non si riesce o non si può avere.

Conosco solo storie belle di adozioni internazionali. Alcune sono anche diventate dei libri, come La memoria impossibile. Storia felice di un’adozione, il primo romanzo di Emilia Marasco. Ho visto crescere i suoi figli etiopi e sono molto affezionata a tutti e due. A Zene, quando era piccola, parlavo sempre di Londra e di come fosse una meravigliosa metropoli multietnica. Ora ha poco più di vent’anni e da Genova si è trasferita ormai da tempo nella capitale inglese. Ed è felice.

Ho già raccontato di Marina e David, amici milanesi, che hanno adottato tre stupendi bambini colombiani. Li ho appena incontrati a San Francisco, dove tutta la famiglia si è trasferita. Ormai sono grandi, e anche loro sono contenti di vivere sulla west coast, “molto meglio di Milano”, c’è più rispetto per le differenze. Una bella famiglia, come quella di Emilia, o come quella di Enrica, artista, che insieme a Davide, ha aperto un centro culturale, Asilo Bianco ad Ameno sul Lago d’Orta: anche loro genitori felici di un bimbo africano.

Solo belle storie frullano per la mia testa. Forse perché ho degli amici particolari, ma è un’esperienza che consiglierei a chi è indeciso. Per questo oggi sono qui a raccontare un’altra storia forte ma straordinaria, quella dello scrittore esordiente Eugenio Gardella, che ha mandato in libreria da poco il suo romanzo autobiografico, Sei sempre stato qui (Frassinelli,€ 18,00). Racconta un percorso difficile. Con la compagna Roberta non riescono a mettere al mondo un figlio, provano l’inseminazione artificiale, ma è un’esperienza traumatica. Decidono di adottare e hanno il cuore aperto a tutto.

Ed è così che entra nelle loro vite Mario, un bambino cambogiano, che raccolgono denutrito da una culla in un orfanotrofio del Paese asiatico. Mamma e papà sono le persone più felici del mondo. Portano il loro piccolo a casa in Italia. Qualche mese dopo Roberta rimane incinta e a Mario arriva una bella sorellina. Merito suo anche questo?

Conosco bene Eugenio da tanti anni, vive e lavora a Genova. È un uomo emancipato, aperto, grande arrampicatore, su roccia, eh! Ama la montagna e il trekking, grandi risorse. Il suo romanzo è il primo che esce da Officina Letteraria, la scuola di scrittura di Emilia Marasco. Già in tanti hanno parlato di questo libro, ma volevo prendermi il mio tempo. Tutta questa fretta, dove ci porterà mai?

Abbiamo fatto una lunga chiacchierata, questo il risultato: «Nel libro racconto istanti inarrivabili. Il primo sguardo, ad esempio, il momento in cui ho visto per la prima volta mio figlio Mario. E poi il primo interminabile abbraccio. Ma ancora oggi, ogni giorno, Mario è il figlio migliore che avrei mai potuto avere, il mio bambino prodigioso dalle mani e dai gesti di farfalla. Io sono un uomo mille volte fortunato e potrei raccontare cento istanti, ma il momento più grande forse deve ancora arrivare».

Elena ha due anni meno di Mario, un bambino lo avete cercato tanto, anche con l’inseminazione artificiale, poi Elena è arrivata nel modo più naturale, con la tanto aspettata gravidanza, quali sono i momenti più intensi che hai vissuto con lei?

«Semplice, ogni giorno, anche adesso, il ricordo più intenso è l’ultima volta che l’ho vista, l’ultimo bacio, l’ultimo sorriso, l’ultima risata o saluto. E, allo stesso tempo, l’istante che mi attira di più è il momento quando la rivedrò, magari domani mattina al risveglio».

Quali le maggiori differenze tra Mario ed Elena, oltre al sesso?

«Sono fratelli, sono cresciuti assieme, in continua relazione da sempre. Sono simili e formano una coppia coesa. Però spesso entrano in conflitto per manifestare la propria autonomia, per guadagnarsi una posizione di vantaggio rispetto ai genitori o al mondo. Mario ha un temperamento più sottile, a tratti più schivo, soprattutto con gli adulti, e come tutti i duri nasconde la sensibilità in pubblico, poi magari passa e ti sfiora con una carezza. Lei è una bambina dolcissima, ha vette, abissi, un’energia esorbitante, a tratti vulcanica e incontenibile. Quando è nata ha afferrato il cordone ombelicale con una mano, lo stetoscopio con l’altra e ha fissato l’ostetrica negli occhi».

Cosa vuol dire per te famiglia?

«Le famiglie sono multiformi, terribili e meravigliose, i luoghi più dolci, violenti e pericolosi che esistano. È un turbinio di relazioni indistricabile. Ciò che mantiene la direzione è quel calore, quella semplice, prevedibile sensazione di essere a casa. Nel luogo più sicuro e splendente del mondo. La consapevolezza aiuta. Anche il dialogo. Dirsi le cose. Cercarsi. Mancarsi. Perdonarsi. Aiutarsi e poi starsene un po’ per gli affari propri tanto gli altri restano a portata di mano.

Diciamo che per me vengono prima loro tre e poi io, potrei azzardare una frase fatta, non c’è nulla che non farei per loro».

Cosa significa Roberta, la tua compagna, per te?

«Cara Laura, cosa mi chiedi… Cosa vuoi che ti dica? Dopo tutto quello che abbiamo passato è difficile dirlo. Spesso ci trattiamo come un dato scontato, la certezza dell’altro è così acquisita che quasi ci disperdiamo nella routine. Spesso litighiamo. Nel libro sembriamo una coppia incrollabile, ma non è sempre così. Certo abbiamo sempre retto quando c’era da reggere. E lo abbiamo fatto assieme. Ancora oggi facciamo delle gran belle litigate. I bambini ormai lo sanno e si fanno una risata. Ma è un rapporto ancora vivo e ci vogliamo bene. Abbiamo il progetto, fra un po’ di anni, di comprare un furgoncino anni settanta e fare il giro del mondo, noi due».

Come è cambiato il rapporto da quando avete due bambini?

«Avere due figli così ravvicinati non è stato facile. Io e Roberta siamo persone felicemente inquiete. Non sappiamo stare fermi, ancora adesso un pranzo alla domenica ci sembra una perdita di tempo, preferiamo mangiare un panino in cima a un monte o andare a scalare. Soprattutto io, ancora più di lei, devo sempre viaggiare o con il corpo o con l’anima. Due figli apparentemente ti tengono al palo. Poi impari a viaggiare in modo diverso».

Tra tutte le esperienze che hai fatto per avere un figlio, quale non vorresti più fare, con il senno di poi?

«È un tipo di pensiero che non mi appartiene. Sono inclusivo per natura. Credo di esserlo diventato per tenere insieme i pezzi di un’infanzia dura che altrimenti mi avrebbe frantumato. Ho imparato da piccolo a perdonare, altrimenti sarei rimasto invischiato in giochi distruttivi. Tutti gli eventi, tutti gli istanti. Tutto fa parte dello stesso insieme. Ogni goccia di pioggia. Tutto ci ha portato qui».

In Italia si fanno pochi bambini, in tanti non ne hanno. Come sarebbe stata la tua vita senza figli?

«Roberta ed io siamo autonomi l’uno dall’altra. Sia io che lei ce la sappiamo cavare senza aiuto. Abbiamo vissuto da soli per anni e io non sono certo uno di quegli uomini che si fanno lavare i panni da qualcuno, ho sempre fatto tutto da solo già da bambino. Avremmo potuto essere felici anche senza figli. Abbiamo scelto di volerli a un certo punto e tutto è andato come è andato. Certo oggi la vita senza Mario ed Elena non potrei immaginarla».

Cosa ne pensi della maternità surrogata, grande tema di oggi?

«Siamo nel 2016, culturalmente stiamo precipitando indietro, mentre la tecnologia ci spinge avanti. Credo che porre divieti sia assurdo. Credo che una forma legalizzata di maternità surrogata vada riconosciuta. Ormai la famiglia è multiforme, multietnica, le identità di genere e i ruoli si intersecano.

Penso a una legge sul genere di quella canadese, a un gesto libero, un gesto altruistico, non commerciale, e comunque ampiamente supportato da servizi pubblici capaci di garantire i diritti dei soggetti coinvolti. Porre barriere, intolleranze, farsi governare dalla paura e limitare la libertà di scelta dei cittadini genera solo disfunzioni, devianze e interessi economici. Ci vuole serenità, cultura, buonsenso e lo stato deve aiutare tutti i cittadini, ad essere quello che vogliono essere.

Il mondo là fuori è grande. Possiamo scegliere la forma delle vele, ma non fermare il vento».

Sei un maschio che si dedica al lavoro di cura – tra l’altro di professione fai l’educatore – quanto ti senti diverso dalla tua genealogia maschile?

«Le definizioni maschio e femmina sono etichette. Ho incontrato uomini e donne, con una sensibilità simile alla mia. La mia storia mi ha portato a crescere fra donne, ma richiamato dal mito inarrivabile di un padre sovrumano.

Anche se sono sempre andato d’accordo con le donne, anche sul lavoro i colleghi maschi sono, nonostante tutto, una parte importante. Certamente le equipe migliori sono quelle miste».

Cosa è che ti ha colpito di più della Cambogia?

«Sono stati giorni che appartengono, in parte, al territorio del pensiero magico. La mia capacità di descrivere quel paese non può prescindere dal momento esistenziale che stavamo vivendo. Una spettacolare, epica e intima avventura.

Poi mi è rimasto il ricordo dei profumi di cibo e spezie per le strade, la natura pluviale e debordante, il sole incandescente che sferzava le strade sterrate, le notti calde ritmate dal respiro di una Phnom Pehn mai sopita. Il sorriso splendente della stracciata e meravigliosa gente di Cambogia».

L’arrampicata è una tua grande passione, come quella di Roberta, e ora anche dei cuccioli. Cosa percepisci in quei momenti?

«L’arrampicata è parte fondante della storia della mia vita. Per me la scalata è coltivare una sfida impossibile, concepire un progetto oltre le mie capacità fisiche e psichiche. È immaginare una linea di salita a cui nessuno ha mai pensato prima, toccare luoghi dove nessuno ha mai messo mano, scoprire gesti che non avrei mai compiuto, vivere luoghi che non avrei mai visto. È gioco, gioia, impegno, fatica, paura e coraggio, attenzione, mai imprudenza! A chi la pratica consiglio sempre la massima attenzione.

Ho iniziato a quattordici anni e la scalata, l’avventura della scalata, è stato trovare un posto mio, un luogo dove liberarmi dalle difficoltà della mia famiglia. Un luogo dove incontrare me stesso.

Trasmettere questo ai miei figli è importante. Anche condividere con loro una passione. Giocare assieme. Stare assieme. Lasciare a loro in eredità la cultura dell’impegno, della fiducia in sé, della cura del corpo e della mente, la voglia di allenarsi duramente per poter sognare in grande».

Per adottare un figlio bisogna essere persone intelligenti e sensibili. Eugenio lo è e dimostra come potrebbe essere l’Italia se tutti fossimo un po’ più consapevoli e guardassimo, con attenzione, oltre la punta del nostro naso. Un Paese bello e accogliente. Eugenio, vi meritate tutto il bene del mondo.

di Laura Guglielmi – Fonte

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