Per loro non suona la campanella, non seguono programmi stabiliti e non riempiono di libri gli zainetti. Sono gli «homeschoolers», i minori che non si avvalgono dell’istruzione pubblica né di quella privata. Negli Usa sono due milioni, in Italia mille e cinquecento. Imparano a leggere e scrivere da papà e mamma, frequentano laboratori di pittura, partecipano a corsi di cultura egizia o di soccorso della fauna, abitano in case tappezzate con cartelloni di poesie, tabelline e disegni. O conoscono le varietà delle piante aiutando i nonni nell’orto. Ad accomunare genitori di ogni estrazione sociale e livello culturale, l’incrollabile convinzione di poter prendere il posto di maestri e professori. «Non siamo presuntuosi, formiamo noi stessi per educare loro- garantiscono-. Affrontiamo sfide continue, poi arriviamo a buoni risultati».
Gruppi in rete
La formazione dei figli «non scolarizzati» avviene tra le mura domestiche e, nonostante difficoltà burocratiche e contrarietà della maggioranza dei pedagoghi, la scuola «fai da te» prende piede e in ogni regione sono attivi «gruppi parentali» dove i genitori mettono a confronto le loro esperienze. La Stampa ha incontrato in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna bambini e ragazzi che non vanno in classe e che studiano in famiglia. «Viviamo tra Milano e Messina – racconta Carmen Fiore, mamma di Alessandro, 11 anni -. Mio figlio è appassionato di animali e ha fatto tirocinio in una clinica veterinaria, un corso di apicoltura, volontariato in un centro per la fauna selvatica. Con un progetto multidisciplinare ha vinto un viaggio studio sui lupi in Inghilterra». E se i papà e le mamme non hanno le competenze per insegnare a un bambino? «Noi genitori siamo delle guide e in base agli interessi dei figli coinvolgiamo altre persone nella loro istruzione – replica Carmen Fiore -. Dove non arriviamo noi, arrivano gli esperti dei vari settori».
Una circolare del ministero attribuisce ai dirigenti scolastici e ai coordinatori didattici la vigilanza «sull’adempimento dell’obbligo di istruzione per gli alunni in istruzione parentale». E così i genitori tracciano liberamente il percorso formativo dai 6 ai 18 anni: alcune famiglie seguono orari giornalieri, utilizzando i testi e programmi scolastici, altre si affidano a un apprendimento più spontaneo. A Ravenna Marzia Bosoni, traduttrice, e il compagno Alessandro, ingegnere informatico, per Sara, 18 anni e i gemelli Simone e David, 15 anni, non hanno affrontato «fughe dovute a brutti voti», bensì hanno «messo in discussione il modo in cui veniva portata avanti la loro istruzione». E «dal 2012 siamo passati da un homeschooling strutturato, con lezioni che seguivano un orario fisso, a un modello più rilassato che si adegua agli interessi dei ragazzi. Ci informiamo e aggiorniamo di continuo». Harvard, Princeton, Yale a altre 900 università nel mondo accettano iscrizioni di homeschoolers. Negli Stati Uniti è un fenomeno di massa, nell’Ue una novità: ad essere istruiti a casa sono 70 mila minori in Inghilterra, 3mila in Francia, 2 mila in Spagna.
Controversie legali
Come rappresentante per la lotta alla discriminazione, il sociologo Massimo Introvigne se ne è occupato all’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione in Europa. «Uwe Romeike, insegnante di pianoforte e protestante conservatore, ha denunciato il governo tedesco, ma la Corte dei diritti dell’uomo ha stabilito che la proibizione assoluta dell’homeschooling in Germania non contrasta con la libertà di educazione», chiarisce Introvigne. In Europa molte famiglie non mandano i figli negli istituti pubblici perché ritengono che la scuola di Stato «trasmetta insegnamenti incompatibili con la loro fede, specie su gender e omosessualità».
Affermati professionisti dalla visuale cosmopolita o mamme «con la terza media» come Giorgia, 36 anni, di Bussolengo, vicino Verona. Fa le pulizie in fabbrica. Insegna ai due vivacissimi figlioletti «la bellezza di studiare liberamente ciò che più si ama, senza condizionamenti né spirito di competizione» e «anche Giacomo Leopardi è stato educato in casa». Non teme di non avere gli strumenti pedagogici per sostituirsi agli insegnanti. «Non ho dubbi: ai miei figli trasmetto ciò di cui hanno bisogno», obietta.
I tre tipi di formazione
Quando si parla di homeschooling, bisogna distinguerne tre forme. L’educazione domiciliare da parte di genitori che impartiscono ai figli l’istruzione. Poi le scuole parentali in cui cooperative di famiglie si mettono insieme per educare senza formare scuole paritarie. E infine l’istruzione attraverso il web. «In Italia tutti e tre i casi sono leciti, con una vigilanza delle autorità scolastiche della scuola cui i ragazzi dovrebbero essere iscritti e un esame annuale – precisa Introvigne -. In Piemonte, per esempio, la scuola parentale della comunità di Damanhur prepara ragazzi che agli esami annuali riescono bene. Le preoccupazioni semmai riguardano non la qualità dell’apprendimento ma la mancata socializzazione scolastica».
Molti Paesi sono alla terza generazione di homeschoolers. In Inghilterra, negli Usa e in altre nazioni, accedono ai corsi universitari prima dei loro coetanei scolarizzati. A Milano Mattia e Giada hanno «cambiato stile di vita, riducendo l’orario di lavoro per poter dedicare buona parte della giornata a Viola, Altea e Alma»: non ci piaceva l’idea di star lontano dalle nostre figlie per sei o otto ore e di delegare ad altre persone la loro educazione». Perciò «frequentiamo molto la biblioteca e siamo sempre presenti alle letture e ai laboratori organizzati ogni settimana: le nostre bambine sono diventate appassionate lettrici». Inoltre «creiamo insieme pannelli montessoriani e diamo una mano in un rifugio per cani abbandonati».
Nessuna esitazione al momento di sottoscrivere il modulo con la dichiarazione per l’educazione parentale. «Non è la scuola a essere un obbligo, ma l’istruzione», controbattono. Uno studente italiano può svolgere l’intero percorso di studi, fino all’università, senza mai mettere piede in un’aula scolastica. Chi sceglie di educare i figli a casa è sottoposto solo alla legislazione statale, non è quindi soggetto a norme regionali né provinciali. «Ma a volte negli uffici territoriali le procedure sono complicate», lamentano alcuni genitori. Sergio Leali, 54 anni, è architetto, la moglie Nunzia, insegnante di ruolo in una scuola superiore. Hanno due figli e vivono in campagna sul lago di Garda. «L’homeschooling offre opportunità ottimali per un’istruzione stimolante e in sintonia coi processi naturali di apprendimento- sostengono-. Per noi significa assumerci in prima persona la responsabilità educativa: la giornata-tipo non esiste, ogni giorno è una scoperta». Far rete è necessario: «Abbiamo creato un gruppo di famiglie che condividono attività, incluse passeggiate nei boschi e gite».
In Canada «sostengono gli homeschooler e investono in questa modalità educativa, sia offrendo alle famiglie il supporto e la consulenza di una figura istituzionale debitamente preparata, sia elargendo contributi». Mille euro all’anno a ciascun figlio per l’acquisto di materiale finalizzato all’istruzione: «Le biblioteche, i musei, le mostre, i teatri, ma anche le stesse scuole collaborano con i genitori offrendo convenzioni, materiali, appositi progetti e la disponibilità dei docenti». Non è previsto l’esame finale, a meno che non sia richiesto dalla famiglia.Il 7 marzo uscirà in 38 città italiane un documentario «Figli della libertà». Erika Di Martino, madre di cinque ragazzi che non sono mai andati a scuola: «Non ci sono né voti, né banchi, né adulti che comandano». Sono cresciuti così il compositore André Stern e il regista Silvano Agosti. «È coinvolto chi sa trasmettere conoscenza e abilità».
Senza programmi fissi
Un apprendimento che non segue vie codificate. Anche le necessità di ogni giorno, come imbiancare la casa o trovare i soldi per una vacanza o una bicicletta nuova, «ci portano a ideare progetti». E i bambini, prosegue Di Martino, «osservano me e mio marito al lavoro, diamo l’esempio su come svolgere attività quotidiane: dal preparare un pasto, a pulire il bagno, ad andare a fare una commissione». All’inizio «ci affianchiamo aiutandoli ma lo lasciamo sbagliare per imparare». Concretezza al posto di lezioni predefinite. «Matteo ha 8 anni e non ha mai messo piede in un edificio scolastico, neppure all’asilo – dice Marta Bacco -. Gli lasciamo massima libertà di scelta sull’apprendimento giornaliero e il gioco è sempre alla base delle sue attività». A Natale ha ricevuto un trenino e si è talmente appassionato che si è messo studiare geografia per conoscere tutte le tappe dei percorsi ferroviari». A Matteo «piace creare i lapbook, suo strumento didattico preferito: libriccini fatto a mano, con tante finestre che si aprono e sviluppano un argomento o una nozione specifica».
Per Barbara Arduini «la scelta del ritiro da scuola di mia figlia Francesca (14 anni) è arrivata dopo un lungo lavoro personale: abbiamo capito che noi adulti abbiamo la responsabilità di crescere persone felici». E «oggi respiriamo la libertà di questa scelta senza alcun ripensamento, consapevoli che Francesca sa bene quale sia la sua strada». La stella polare è «la pedagogia proposta dall’educatore tedesco Arno Stern», il totem è il Closlieu (stanza-chiusa), «un particolare atelier di pittura in cui emergono le dissonanze con l’educazione tradizionale e i messaggi trasmessi ai ragazzi dal sistema sociale e scolastico».
Chiara Agostinelli aveva riscontrato nelle due figlie «forti segni di insofferenza all’ambiente scolastico: tornavano a casa nervose, provate, molto stanche». Per indole, «hanno stili di apprendimento diversi», dunque «servono due approcci diversi per aiutarle nella comprensione». E «la minore ha imparato da sola a leggere e scrivere frasi complete in un mese e mezzo, a scuola occorre un anno». Lei aveva appeso alle pareti «lettere dell’alfabeto che con la forma riprendevano l’iniziale dell’oggetto a cui si riferivano ed è bastato». Niente aule né prof in cattedra. «Bastiamo noi a insegnare e dove c’è bisogno chiediamo aiuto a chi ha competenze specifiche nei vari campi».
di Giacomo Galeazzi – Fonte