E’ abbastanza incredibile che «vecchi arnesi» come gli Stadio vincano il Festival, battendo rapper napoletani e giovanotti dei talent. Nessuno se l’aspettava; forse perché si dedica molto tempo a penetrare il significato politico, culturale, simbolico di Sanremo, e meno ad ascoltare il testo delle canzoni. Si dibatte sull’intensa produzione dei 70 mila che hanno commentato il Festival su Twitter, e non sui dieci milioni che l’hanno semplicemente visto e discusso nelle loro case, con le loro famiglie; in particolare tra padri e figlie. Perché di un padre e di una figlia parlava la canzone degli Stadio; di cui neppure Carlo Conti si era accorto, visto che — come ha raccontato Gaetano Curreri, il leader del gruppo — l’anno scorso l’aveva scartata.

Certo, in altre occasioni Sanremo era un segnavento, un indicatore dell’aria che tirava. Nel 2004, all’apice dell’era Berlusconi, la Rai si concesse il lusso di affidare il Festival a Tony Renis, nonostante qualche problema con la giustizia («Chi non ha avuto amici criminali?» lo protesse Celentano). Nel 2011 la vittoria inattesa di un cantautore come Roberto Vecchioni, con una canzone dichiaratamente antiberlusconiana, segnò un cambio di stagione. Ma stavolta la politica non c’entra nulla.

 Gli Stadio avevano vinto già la serata delle cover — che nel 2015 aveva lanciato Nek e anche quest’anno si è rivelata decisiva — con La sera dei miracoli; e nel loro successo finale c’è un po’ di Lucio Dalla, la cui grandezza aumenta con il tempo che passa. Una mano è venuta da Franz Di Cioccio, il presidente della giuria di qualità, che ha applaudito entusiasta l’esibizione del collega e coetaneo Curreri: sulla rivalità tra artisti è prevalsa la solidarietà generazionale; fossero stati due quarantenni si sarebbero sbranati. Ma la chiave della sorpresa è il testo della canzone.
Il rapporto tra padri e figlie è una delle poche rivoluzioni riuscite della nostra epoca. La pace, il progresso infinito, la convivenza delle religioni si sono rivelati utopie; ma la condizione della donna è cambiata per sempre, si è evoluta in modo irrimediabile. E anche i padri sono cambiati. Più presenti, più responsabili, più vicini; forse anche troppo. Le nostre nonne sposavano uomini scelti dai loro padri; fino a qualche anno fa in Cina i mariti costringevano le mogli ad abortire se era in arrivo una femmina. Tutto questo è finito, o sta finendo. I padri sono felici delle loro figlie, e non hanno pudore a manifestare la loro felicità: «Un giorno ti dirò che ti volevo bene più di me», che ti amavo più di me stesso; al punto da sacrificare l’amore per un’altra donna pur di restare al tuo fianco. I padri non hanno timore di mostrarsi commossi, a costo di sconcertare le figlie. E le figlie non hanno timore a confidarsi con i padri: «Un giorno mi dirai che un uomo ti ha lasciata, e che non sai più come fare a respirare, a continuare a vivere»; «ma se era vero amore, è stato meglio comunque viverlo».

È un dialogo non facile, è un rapporto destinato a restare irrisolto. Ma rappresenta un cambiamento profondo, in una società che comincia a lasciarsi alle spalle un maschilismo atavico. C’è una ragazza nel video che gli Stadio hanno messo in rete, c’era una ragazza accanto a loro sul palco di Sanremo: «Potresti essere la figlia della canzone» ha detto Curreri a Francesca Michielin, prima ancora di sapere chi tra loro avesse vinto il Festival. E sarà la «figlia», non il «padre», a rappresentare l’Italia all’Eurovision: gli Stadio hanno valutato che Francesca avesse l’età più adatta; o forse dovevano partire per la loro meritata tournée. A noi resta l’idea di storie d’amore ancora da scrivere, o dolorosamente interrotte (come quelle raccontate da Benedetta Tobagi — Come mi batte forte il tuo cuore, splendido titolo tratto da un verso di Wislawa Szymborska — e da Sabina Rossa: Guido Rossa, mio padre). Non è il tempo dell’eclisse dei padri; è il tempo in cui genitori e figlie non si vergognano dei loro sentimenti, in cui l’eterno inseguimento a una bambina che diventa adolescente e poi donna continuando a sfuggire non appare più una condanna, ma il sale della vita.

di Aldo Cazzullo – Fonte

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