«Fino a pochi anni fa chiunque si occupava di “sociale” era dipinto come un “santo” o un “supereroe”. Adesso è un “ladro” (Mafia Capitale docet), uno “stupratore di bambini”, un “picchiatore di disabili”»: così Luigi Vittorio Berliri, presidente di Casa al Plurale, il coordinamento delle case famiglia per persone con disabilità e minori di Roma e del Lazio (400 operatori per 400 persone con disabilità e un migliaio di minori in difficoltà accolti) ha scelto di iniziare la sua bella analisi all’indomani dell’ennesimo brutto episodio che ha portato alla chiusura di una casa famiglia a Marino, nei pressi di Roma, dove 7 ragazzi stranieri venivano maltrattati. Di numeri veri, di costi e di presunto business abbiamo parlato già nei giorni scorsi, mentre qui in allegato trovate la puntuale documentazione che Berliri ha preparato sui costi standard di una comunità per minori.
Con Liviana Marelli, presidente del CNCA, qualche giorno fa avevamo fatto una lunga chiacchierata per un articolo destinato al prossimo numero di VITA, che facesse il punto sulla situazione delle politiche per l’infanzia in Italia. Molti temi si incrociano con l’attualità di questi giorni. Ecco alcune riflessioni.
Da più parti si sente dire che abbiamo gli istituti pieni di bambini senza famiglia e una legge che pone troppi ostacoli a chi vuole adottare. In realtà i circa 30mila minori che in Italia vivono temporaneamente fuori famiglia non sono tutti “senza famiglia”. Ci spiega?
Non è così. I minori che si trovano fuori famiglia non sono tutti adottabili, i numeri sono già stati ricordati più volte. Le comunità accolgono soprattutto adolescenti e ragazzini, basti pensare che uno su tre è straniero e il 50% di quell’uno su tre è un minore straniero non accompagnato: sono ragazzini abbastanza grandi. Il primo dato di realtà è questo. Essere fuori dalla propria famiglie non vuol dire che la famiglia non sia riattivabile o non sia una risorsa, ma che il bambino ha la necessità di un percorso di protezione e tutela: dobbiamo pensare che i bambini non sono “tolti” alla famiglia quanto “messi in protezione”.
Quindi quello dei bambini “strappati” alle famiglie è un falso?
Intanto la dichiarazione di adottabilità, come tutti i provvedimenti della magistratura minorile non sono né ignoti né improvvisi. Dal luglio 2007, in applicazione della legge 149 del 2001, nel momento in cui Tribunale dei Minorenni apre il fascicolo occorre che venga nominato un avvocato della famiglia e se la famiglia è povera c’è la difesa d’ufficio. È falso affermare che improvvisamente arriva qualcuno e porta via il bambino. Detto ciò, vedo un po’ una schizofrenia culturale nelle affermazioni che si rincorrono in questi giorni: da un lato si dice che le comunità strappano i bambini alle loro famiglie e dall’altro si dice che tutti i minori in comunità dovrebbero andare in adozione in una nuova famiglia! Le adozioni devono essere fatte solo nel momento in cui è certo che famiglia biologica non è riattivabile, perché l’adozione ha compito di dare famiglia a chi non ce l’ha, non dare bambino a una famiglia che lo desidera.
C’è chi ha messo in evidenza l’altissimo numero di affidi sine die o di permanenza in comunità per tempi molto lunghi: servirebbe stabilire un tempo massimo entro cui i servizi dovrebbero avere il coraggio di decidere se una persona o una coppia può recuperare o meno le proprie competenze genitoriali?
Gli affidi a lungo termine, io preferisco chiamarlo così, a volte sono non soltanto l’unica risposta possibile ma anche quella che tiene meglio insieme i bisogni di entrambi, figli e genitori. Ogni situazione è diversa. Ci sono adolescenti che arrivano in comunità a 16 anni e ci restano fino all’autonomia: sa quante associazioni e cooperative si stanno industriando e inventando forme di autoimprenditorialità per avviare posti di lavoro per questi ragazzi? Diverso è il caso di chi resta in comunità perché fuori non si sono costruite alternative, ci sono molti casi in cui l’equipe della comunità dice che un ragazzo potrebbe rientrare in famiglia se solo ci fosse un sostegno, l’educatore che va in casa, un centro diurno che accompagna la famiglia, un supporto psicoterapeutico o un’educativa domiciliare… ma non c’è, non ci sono soldi, non ci sono alternative. Il tema non è il tempo in sé ma l’appropriatezza della soluzione, il problema è se i tempi si allungano perché non abbiamo lavorato sul terreno: bisognerebbe lavorare di più sull’attivazione della famiglia di origine.
La riforma della legge sulle adozioni dovrebbe quindi occuparsi di questo?
Il problema di come facciamo a intervenire in maniera più sensata rispetto alle famiglie d’origine non sta nella legge, ma nelle scelte di politiche sociali che lo Stato fa. Abbiamo uno Stato che non sta investendo e se continuiamo a ragionare solo sull’emergenza il rischio di implodere c’è. C’è quindi un tema di risorse ma anche la necessità di superare la frammentazione, c’è una carenza di regia sulle politiche per l’infanzia che rende difficile qualsiasi programmazione. Basta prendere lo schema contenuto nel recente rapporto del Garante per l’Infanzia e l’adolescenza, servono tre pagine per disegnare tutti i soggetti coinvolti, quello schema vale mille discorsi (in allegato), uno lo apre e si chiede, “bene, ma chi ha la responsabilità?”.
Dovendo rimettere mano alla legge sulle adozioni, quali priorità vede?
Intanto parto col dire che la legge 184, rivista poi dalla 149 è, quella che nel 2006 ha chiuso gli istituti, è una buona legge: prima di cambiarla forse andrebbe attuata. Inoltre ricordo che è appena stata rivista con la legge sulla continuità affetti, sono modifiche importanti. Vorrei evitare il rischio che si metta mano alla legge non per rendere esigibile diritto del minore a una famiglia ma per venire incontro al preteso diritto dell’adulto di avere un figlio. Penso quindi che il dibattito da fare sia culturale prima che giuridico: non ho niente contro adozioni ai single né alle coppie omosessuali, ma sono convinta sia necessario tenere fermo uno scenario in cui diritti vadano pesati. Dobbiamo capire le modalità più eque per tenere conto dei diritti di tutti e dei cambiamenti, ma rispetto a una scala di valori che non può essere vista solo da una parte. Occorre ricollocare i pensieri in un orizzonte culturale e sociale di dibattito: forse la soluzione c’è già nelle norme che abbiamo, basta provare a ridirci – da adulti – dove mettiamo le priorità e ridisegnare contesti istituzionali più capaci di disegnare diritti.
di Sara De Carli – Fonte