Chi pensa che se ci fossero meno pastoie burocratiche ci sarebbero più adozioni nazionali e internazionali è bene che si ricreda»: la sociologa Chiara Saraceno da sempre schierata in favore dei diritti del le famiglie arcobaleno, certa che sia del tutto anacronistico consentire le adozioni solo alle coppie eterosessuali sposate è fra i pochi intellettuali che hanno avuto il coraggio di sbugiardare l’assunto principale su cui si fondano tanti ragionamenti sulle adozioni. Commuoversi dinanzi ai quasi 30mila bambini che nel nostro Paese vivono fuori dalla loro famiglia e af fermare che basterebbe estendere a più soggetti la possibilità di adottare è una falsità: lo dicono i dati e lo dicono gli esperti, chi con quei bambini (che poi proprio bambini non sono, e questo è un dato di realtà con cui fare i conti) lavora ogni giorno. Riconoscere a degli adulti un diritto è cosa che può essere necessaria o persino buona, ma non può assolutamente essere fatta passare come la realizzazione stessa del diritto del minore ad avere una famiglia, come ha ricordato Claudio Magris.
Se davvero ci stanno a cuore i 30mila minori che oggi vivono lontani dalle loro famiglie l’imminente (?) riforma della legge sulle adozioni, annunciata con grande enfasi all’indoma ni dello stralcio della stepchild adoption dalla legge sulle unioni civili, su cosa dovrebbe concentrarsi? Partiamo dai dati. Dei 28.449 minori fuori famiglia, 14.255 sono in comunità e 14.194 in affido familiare. Tolti i minori in affido a parenti (che quindi sono ancora nella loro famiglia, seppure intesa in senso allargato) e i neomaggiorenni in prosieguo amministrativo, più correttamente possiamo dire che in Italia ci sono 20.684 minori temporaneamente fuori dalla loro famiglia d’origine.
Il 68% dei minori in comunità hanno fra gli II e i 17 anni; uno su tre è straniero e la metà di essi è un minore straniero non accompagnato. Di tutti questi minori, nel 2014 ne sono stati dichiarati adottabili 1.397 (dati delle Procure), di cui 278 abbandonati alla nascita. Le domande di adozione, nello stesso anno, sono state 9.657:6,91 famiglie disponibili per ogni bambino dichiarato adottabile. Nonostante ciò, al 31 dicembre 2013 nei servizi residenziali c’erano ancora 779 minori adottabili, che nessuna famiglia diciamocelo chiaro aveva voluto. «Il sistema quindi non ha bisogno di ulteriori famiglie adottive quanto di famiglie adottive disponibili ad accogliere ragazzi grandicelli, con bisogni speciali, oppure di famiglie affidatarie o di supporto», dicono le associazioni promotrici della campagna #5buoneragioni. Oppure «c’è bisogno di azioni specifiche, mirate, i bambini con più difficoltà trovano famiglia solo all’interno di relazioni di conoscenza, basti pensare a quanti medici, insegnanti, infermieri, volontari hanno adottato bambini malati o con disabilità importanti», sottolinea Frida Tonizzo, consigliera Anfaa.
Ecco allora la questione centrale, che ci riporta più alle scelte in materia di politiche sociali che alla legge in sé. La norma qualche aggiustamento lo richiederebbe, a cominciare ad esempio dalla attuazione della banca dati nazionale dei minori adottabili e delle famiglie disponibili all’adozione, prevista da 15 anni e mai attuata; dai tempi certi per le procedure, che oggi non rispettano la legge; dal dare una risposta ai troppi affidi sine die, che lasciano bambini e ragazzi in un limbo indefinito; magari anche da una riflessione sull’adozione aperta, che preveda il mantenimento dei rapporti positivi con alcuni componenti della famiglia di origine, ma tutti sono concordi nel dire che il nodo non è la legge. «Gli investimenti per le politiche per la famiglia e l’infanzia si sono drasticamente ridotti dal 2009, non ci sono fondi strutturali, non è possibile fare programmazione. La prevenzione è praticamente scomparsa, i servizi prendono in carico solo bambini per cui è già stato emanato un decreto di allontanamento da parte della magistratura, ma a quel punto è solo riduzione del danno», spiega Samantha Tedesco, responsabile dei programmi e advocacy di Sos Villaggi dei Bambini. Ci sono ragazzini i cui progetti vengono dimenticati da tutti, famiglie lasciate sole, ragazzi per cui compiere 18 anni significa affacciarsi sudi un baratro.
Liviana Marelli, responsabile area infanzia, adolescenza e famiglie del Cnca, è sconsolata e arrabbiata: «Sa quanti ragazzi potrebbero rientrare in famiglia se ci fosse un sostegno, ma restano in comunità perché non si costruiscono le alternative? Basterebbe che ci fosse un centro diurno o un educatore domiciliare o un supporto psicoterapeutico». L’Italia destina a famiglia e infanzia l’1,3% del Pil, contro l’ll% della Germania: forse è il caso di pensarci prima di riempirci la bocca di infanzia e bambini.
di Sara De Carli – Fonte