Negli archivi del ministero della Giustizia i ragazzini adottati sono nomi e cognomi senza un passato. Cinquantamila negli ultimi dieci anni. Numeri con un’etichetta appiccicata sopra – Elena, Mattia, Olga, Rashid, Ivan, Felipe – materiale indistinto buono per le statistiche ma di scarsa utilità per capire da dove vengono, quali traumi hanno subito, che lingua parlano, se sono figli di mafiosi o di combattenti sudanesi, perché una cicatrice profonda gli segna un ginocchio o perché gli mancano le braccia, se sono geni della fisica o incapaci di parlare, di pensare, di sorridere, se sono calmi o aggressivi, bianchi o gialli. Non esiste, insomma, una banca dati nazionale che li riguardi, che parli di loro come persone, anche se una legge di quindici anni fa (la 149 del 2001) l’ha inutilmente prevista.
FONTE: elaborazione dati di Istituto degli Innocenti, Dott.ssa Raffaella Pregliasco, CIAI.it, AiBI.it, Dr. Peter Selman
Il senso di quello che sono è custodito all’interno dei faldoni raccolti nei ventinove tribunali per i minori che assieme ai servizi sociali, alla Commissione per le adozioni internazionali (Cai) e agli enti autorizzati, costituiscono la rete di fili invisibili nata per impedire a questi ragazzi di finire in un abisso fatto di niente.
È normale questo buco che non consente di tenere sotto controllo il sistema, di creare momenti di collaborazione, riducendo dolori, errori e costi?
Evidentemente sì, perché, allargando appena l’orizzonte, si scopre che non esiste neppure una statistica su quanti di questi bambini meravigliosi e interiormente scassati vengano restituiti alle case famiglia dopo l’adozione. «È andata male, ci spiace, riprendetelo». Lacrime e strazio. Capita così? Esattamente così. Succede cento volte l’anno. Tra le otto e le dieci volte al mese.
Li chiamano fallimenti adottivi, storie in cui perdono tutti. E che, secondo l’ultima conta superficiale, anche questa risalente all’inizio del secolo, sono circa il 3% del totale. «Il che significa che il 97% delle adozioni va a buon fine, ma anche che dal 2005 ci sarebbero stati oltre 1.500 bambini riconsegnati allo Stato», dice Anna Maria Colella, presidente dell’Arai, unico ente pubblico che opera nel settore in compagnia di 62 enti privati autorizzati dalla Cai, la commissione per le adozioni internazionali presieduta da Silvia Della Monica che fa capo a Palazzo Chigi e che da due anni è al centro di una violenta polemica fatta di accuse, insulti, interrogazioni parlamentari, lettere di protesta, atti mancati, insinuazioni e carte bollate.
FONTE: elaborazione dati di Istituto degli Innocenti, Dott.ssa Raffaella Pregliasco, CIAI.it, AiBI.it, Dr. Peter Selman
Scontro sulla Cai
Il nemico numero uno di Silvia Della Monica è un signore lombardo che abita a Melegano e presiede l’Ai.Bi, storico ente privato che, per quanto le adozioni internazionali si siano dimezzate negli ultimi cinque anni, nel 2015 ha gestito l’arrivo in Italia di 174 bambini. Si chiama Marco Griffini, è un cattolico praticante padre di tre bambini adottivi – «Per me l’adozione è un atto di fede perché il Dominatore del mondo (Satana) sta lavorando» – che sulla Cai ha un giudizio netto. «Una bolla antidemocratica, mi chiedo perché Renzi non prenda provvedimenti». Esagera? Certamente. Ma due dei rilievi sono sottoscritti da molti suoi colleghi e fanno parte di una contestazione parlamentare alimentata dagli onorevoli Giovanardi e Brambilla e condivisa anche da pezzi del Pd. «Dal 2013 la Cai non fornisce i dati sulle adozioni internazionali. Non era mai successo. In più la commissione non si riunisce dal giugno del 2014», dice Griffini, lamentando una difficoltà di relazione con Della Monica, accusata di non rispondere né al telefono né alle lettere, sue e degli altri enti privati, 27 dei quali, assieme a 33 associazioni, hanno scritto prima alla Cai e poi a Renzi per avere chiarimenti. Richiesta caduta nel vuoto.
«Quando Della Monica è stata nominata abbiamo pensato: è arrivata una di noi. Diceva cose che sosteniamo da sempre. Tipo: sono i bambini ad avere diritto a una famiglia, non le famiglie ad avere diritto ai bambini. Bellissimo. Poi qualcosa ha smesso di funzionare. Tra l’altro sappiamo che i rapporti statistici sono pronti. E allora perché non pubblicarli?», dice Paola Crestani, presidente del Ciai.
Della Monica, ex pretore di Pontassieve, magistrato a Firenze negli anni del Mostro ed ex senatrice del Pd, viene nominata vicepresidente della Cai nel giorno del passaggio di consegne tra Letta e Renzi. Il neo premier dopo un paio di mesi decide di attribuirle anche le deleghe che fanno capo a Palazzo Chigi, consegnandole il ruolo sia di presidente sia di vicepresidente. Un inedito per la commissione che ha sempre avuto una guida politica (in genere il ministro della famiglia) e una tecnico-amministrativa, il vicepresidente, appunto. In questo caso controllore e controllato sono la stessa persona.
Abbiamo provato a parlare con Della Monica. Inutilmente. Allora siamo andati a cercare le dichiarazioni rilasciate nelle occasioni pubbliche. «Pulizia, trasparenza, bambini al centro. I dati presto li daremo». Alcune sue affermazioni sono inattaccabili. Altre discutibili. La più forte? «In Italia esistono enti che propongono adozioni internazionali, ma che lo fanno comprando i bambini, una prassi che va estirpata». Dunque la presidente della Cai sostiene che alcuni enti comprano i bambini. Ma non dice quali. Curioso, considerando che è proprio la Cai che li autorizza a lavorare. «È come se un preside convocasse i genitori e dicesse: ci sono degli insegnanti che picchiano i ragazzi ma non posso darvi i nomi e non li rimuovo», dice Paola Crestai.
In una società che ha paura di adottare in senso lato, che teme il dolore, che ha un cattivo rapporto con la disfunzionalità, che vede in chi riesce ad affrontarla un santo, o un eroe, e in cui la narrazione è decisiva, dibattiti come questo non sono un dettaglio.
I fallimenti adottivi
Attraverso il sistema nazionale lo scorso anno sono stati adottati mille bambini e quasi altrettanti sono stati dati in affido preadottivo. Mentre attraverso il sistema internazionale sono entrati circa duemila piccoli. Le famiglie dichiarate idonee all’adozione erano poco meno di diecimila. Eppure la distanza tra la domanda e la disponibilità di bambini è meno larga di quello che appare. Quando si tratta di abbinare piccoli e famiglie il sistema tende a funzionare. I tribunali per i minori lavorano bene. «Cerchiamo di curare quello che la legge, con una splendida definizione, chiama “il migliore incontro” tra coppia e bambino in abbandono», dice Maria Francesca Pricoco, presidente del tribunale per i minori di Catania, un’area da due milioni di abitanti ad alta densità mafiosa, dove per altro molti sono i minori non accompagnati che arrivano con gli sbarchi. Figli di criminali, figli di profughi morti in mare, figli di donne disperate, di genitori trascuranti. Nel campionario del dolore non manca nulla. E quel dolore per molte famiglie è inaffrontabile. «Un bambino con un deficit psicofisico difficilmente lo vuole qualcuno», dice Pricoco. Ma proprio dentro a quel «difficilmente» ci sta la parte migliore delle famiglie adottive, «quelle che sanno che prendersi cura di queste creature è comunque una straordinaria fortuna. Per loro e per chi lo fa», dice Manuela Guidi, madre romana di tre bimbi dell’Est.
FONTE: elaborazione dati di Istituto degli Innocenti, Dott.ssa Raffaella Pregliasco, CIAI.it, AiBI.it, Dr. Peter Selman
A Torino Anna Maria Colella, una sorta di angelo delle adozioni che sta cercando di allargare il sistema piemontese ad altre regioni, racconta una storia che ne tiene dentro almeno due. Quella di un bambino asiatico che arrivato in Italia ha cominciato a sbattere la testa contro il muro. La famiglia adottiva, non fidandosi più dell’ente al quale si era rivolta, ha bussato alla porta dell’Arai. L’Arai, grazie a dei mediatori culturali, ha scoperto che il rapporto tra bambino e famiglia prima dell’adozione era stato troppo breve e che la famiglia l’aveva preso, nonostante le difficoltà psichiche, perché una coppia partita con loro aveva avuto il coraggio di adottare un piccolino nato senza ano.
Una volta tornati a casa le cose però sono peggiorate. Finché il piccolo ha raccontato che era convinto di venire in Italia solo per una vacanza e che gli avevano garantito che avrebbe visto la tv nella sua lingua. Un disastro o una truffa? «La verità è che quando si opera all’estero bisogna avere un team d’appoggio preparato nel Paese in cui si adotta. E che qualche ente italiano fatica a rispettare gli standard necessari», dice Colella. Per questo il controllo dello Stato sui privati dovrebbe essere più penetrante. E soprattutto, altro problema irrisolto, l’appoggio alle famiglie dopo l’adozione dovrebbe essere prolungato e garantito per legge. «Il diritto di un minore è un diritto pubblico, non privato», sostiene Pricoco. E Colella aggiunge: «Noi lavoriamo per lo stipendio. I privati, che nella maggior parte sono bravissimi, hanno bisogno di fare numeri. Certo se ci fossero meno enti sarebbe un vantaggio per tutti. A cominciare dalle famiglie che risparmierebbero un sacco di soldi». Economie di scala. In Italia gli enti autorizzati sono 62. In Francia 34. In Germania 12. Difficile immaginare che abbiamo ragione noi. Difficile immaginare che non ci sia nesso con i fallimenti adottivi.
Storia di Matilde
Devi avere un cuore largo almeno quanto le spalle se decidi di adottare un bambino, ma tre volte più largo delle spalle se decidi di adottare un bambino con bisogni speciali.
Matilde l’ha fatto impazzire. L’ha amata con tutto il suo cuore. Ma starle dietro è stato quasi impossibile. Gianluca S. si appoggia alla sedia di metallo in una stanzetta di una associazione nel Nord Italia. È un impiegato pubblico, guadagna bene e ha due figli. Uno biologico e uno adottivo, Matilde, appunto. L’ha presa piccolissima. Sua madre l’aveva abbandonata. Matilde sembrava sana, poi qualcosa nella sua testa si è rotto. A scuola ha cominciato a rubare. Prima le merende ai compagni. Poi i portafoglio. Mai usato i soldi. Accatastava ogni cosa in un armadietto. Gianluca le ha chiesto: perché lo fai? Lei ha detto: non lo so. Poi Matilde ha cercato di mettere Gianluca contro sua moglie. Impossibile. Rapporto troppo forte. Allora a poco più di tredici anni ha cominciato a rivolgere le proprie attenzioni a ogni uomo che le passava davanti.
Complicato controllarla. Più facile essere costretti ad andare a recuperarla nel cuore della notte in una stazione dei carabinieri. Hai mai pensato di ridarla indietro? Gianluca dice: no. A un certo punto anche la madre di Matilde si è rifatta viva. La rivoleva con sé: Matilde era abbastanza grande per decidere da sola. Ha accettato. Le cose sono andate male. Gianluca e sua moglie l’hanno ripresa. Poi Matilde è rimasta incinta. Meglio che tu non tenga il bambino, le ha detto Gianluca, non saresti in grado di crescerlo. Lei ha detto: va bene. Quindi è rimasta incinta una seconda volta. E la scena si è ripetuta uguale. Adesso Matilde convive con uno strano signore che un po’ l’aiuta e un po’ la sfrutta, ma Gianluca continua a starle di fianco. E Matilde gli dice: ti prego papà non morire. Senza di te non saprei cosa fare. E tu, Gianluca hai mai pensato di avere sbagliato? Lui deglutisce piano, come se volesse aprire una porta nascosta per fare uscire la voce della sua anima. «Mai». Esistono anche genitori adottivi così. Tanti. Guarda la foto di Matilde sul cellulare. E’ molto cambiata da quando era bambina. Ancora adesso gli è difficile trovare un angolo di dolore accettabile dove la mente possa finalmente riposare. Ma in fondo non gli importa molto.
di Andrea Malaguti – Fonte