Il «caso» Caivano come punta emersa di un iceberg agghiacciante, tutto da scoprire, ma ignorato: è la tesi di Donatella Palma, neuropsichiatra infantile, specializzata in abuso e maltrattamento sui minori, impegnata nell’hinterland napoletano anche come presidente dell’Associazione NPIA in Rete Campania (Neuropsichiatri infanzia e adolescenza) che raggruppa 110 associati su 140 in Campania.

Dottoressa, quali sono i dati?
«Anche se non esiste un archivio preciso su questo, in Italia si registra ogni anno un caso di abuso su minori ogni 4 scuole, con un totale di almeno 21mila casi annui equamente divisi tra violenza carnale e molestie gravi. Il 91% delle violenze sessuali avviene in casa. Secondo stime del Censis, circa 2 bambini su mille subiscono mediamente ogni anno un abuso sessuale. E le stime fanno ritenere che venga scoperto e denunciato un reato di violenza sessuale sui minori su un range di 20-40 reati effettivamente compiuti. Il fenomeno, insomma, è del tutto trasversale».

Nella zona di Caivano sono aumentate le segnalazioni di sospetti reati di abuso…
«Certo, l’istituto Toniolo ha registrato ad esempio, solo per l’anno scorso, 50 nuovi casi. Ma il peggio deve ancora emergere perché non esiste un archivio certo di dati su questo. E ritengo che l’attenzione morbosa generata in Italia dalla vicenda del Parco Verde sia l’esempio di una grande negazione nazionale dell’abuso sui bambini».

In che senso?
«L’adulto, di fronte all’abuso, nega. Sempre. E a vari livelli. Per rimozione del dolore. Per discredito, insinuando che il bambino sia suggestionato, manipolato, disturbato. Per fraintendimenti ed errori di comprensione. O per giustificazionismo: con quella storia alle spalle, si usa dire, era inevitabile che accadesse. E invece i bambini vanno ascoltati e i loro segnali di malessere intercettati, secondo specifici indicatori di abuso sessuale».

Ma quanto sono attendibili le testimonianze dei bambini, come nel caso dell’incidente probatorio per Fortuna?
«I bambini non parlano mai di qualcosa che non è nel loro vissuto esperienziale, né hanno la capacità di immaginare quanto va oltre il proprio bagaglio di esperienza: raccontano sempre ciò che hanno visto, se non vissuto in prima persona. Le loro testimonianze sono validanti».

Alla luce della sua esperienza, quali sono i maggiori fattori di rischio per un fenomeno ancora troppo sommerso?
«Sono tre: Il primo, la vulnerabilità sociale, è legato ad ambienti promiscui e non protetti per l’infanzia: povertà, disoccupazione e condizioni abitative inadeguate aumentano le possibilità di abuso. Poi c’è la vulnerabilità familiare, con tendenze all’acting out innescate da storie pregresse di maltrattamenti. Infine c’è la vulnerabilità individuale: bambini iperattivi, con disturbi del ritmo sonno-veglia, patologie croniche, disadattamenti vanno monitorati.

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