Fare volontariato fa bene anche ai volontari. Lo si dice spesso. Ma ora a confortare questa affermazione c’è ora una ricerca innovativa dalla quale emerge il ritratto del volontario tipo: colto, felice e fiducioso nel prossimo. Il profilo emerge dalle pagine di “Volontari e attività volontarie in Italia. Antecedenti, impatti, esplorazioni” (Bologna, Il Mulino 2016), volume curato da Riccardo Guidi, Ksenija Fonović e Tania Cappadozzi.
L’azione volontaria viene analizzata sulla base dei dati Istat 2013 che sono stati rilevati adottando, per la prima volta in Italia, lo standard mondiale Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) per la rilevazione del volontariato all’interno dell’indagine multiscopo sugli aspetti della vita quotidiana. Per non fermarsi ai numeri abbiamo chiesto a Ksenija Fonović, vicedirettore di Spes – Centro di Servizio per il Volontariato del Lazio, tra i curatori della pubblicazione, di illustrare il cuore della ricerca.
«Al centro dell’attenzione la figura del volontario, la persona e quello che fa. Per la ricerca abbiamo utilizzato per la prima volta lo standard Ilo. Non abbiamo voluto inseguire un’idea generica del volontariato, ma abbiamo cercato di definire le azioni dei singoli con il criterio del lavoro volontario» spiega Fonović. «Utilizzando lo standard statistico dell’Onu su lavoro e attività umane per produrre beni e servizi. Di conseguenza si può definire il lavoro volontario come l’attività di un individuo a beneficio di altri fuori dalla cerchia familiare o del bene comune e a questo si può dare un valore». Da questa scelta metodologica sono discese le domande del modulo statistico somministrato e quindi i dati. Dallo studio emergono i 6,63 milioni di volontari, la maggioranza ovvero 4,14 milioni lo fa all’interno di organizzazioni, mentre circa 3 milioni sono volontari individuali.
Alle persone in pratica è stato chiesto non solo il cosa, ma anche per quanto tempo, cercando di affinare le descrizioni «incrociando i dati si ottiene l’ammontare del tempo di “lavoro volontario” che può essere tradotto in un valore economico» continua Fonović. Tra i dati che saltano all’occhio ci sono i 126 milioni di ore di aiuto al mese.
Ma questa ricerca che nel suo procedere ha vistop nel Terzo settore un collaboratore fondamentale poteva fermarsi all’accumulo di dati e invece «su questa che è una vera e propria miniera di dati e c’è stata una chiamata a raccolta per costruire gruppi di lavoro transettoriali» precisa il vicedirettore Spes «l’aver lavorato insieme sui dati ha fatto la differenza e ha portato a risultati inediti».
Per Fonović il lavoro di analisi e studio sui dati è fondamentale perché «ci aiuta a capire di cosa stiamo parlando e quali sono i tipi di attivismo dei cittadini. Come Centri di servizio per noi è importante investire nella ricerca e nella cultura. Questi studi ci permettono di chiederci e quindi trovare sempre nuove e più puntuali riposte anche sul come dare supporto ai volontari fuori dalle organizzazioni o aiutare le piccole associazioni di quartiere».
Dalle pagine del volume emergono sette profili per i volontari che operano all’interno di organizzazioni: dai “fedelissimi dell’assistenza” il gruppo più numeroso (pari al 29,6% del totale dei volontari organizzati) composto da persone che dedicano mezza giornata alla settimana chi ha bisogno di aiuto in campi quali i servizi sociali, la protezione civile e la sanità; seguiti a ruota per numero dalle “educatrici di ispirazione religiosa” (25%) impegnate nelle attività educative e nella catechesi, un impegno settimanale vissuto come stile di vita in particolare per le donne del Sud. Il 13,6% dei volontari organizzati sono definiti “pionieri” generalmente laici e istruiti impegnati per l’ambiente e la collettività ai margini delle modalità organizzative tradizionali, seguono gli “investitori in cultura” (10,3%) che mettono a disposizione competenze professionali specializzati per iniziative culturali e ricreative e i “volontari laici dello sport” allenatori e dirigenti di associazioni sportive dilettantistiche (8,9%) e ancora i “donatori di sangue” per lo più maschi, occupati, genitori e in buona salute fidelizzati all’associazione che si mettono a disposizione una volta al mese (8%). Ci sono infine gli “stakanovisti della rappresentanza” ovvero dirigenti e organizzatori di associazioni che si occupano di politica, attività sindacale e tutela dei diritti (4,6%) per un terzo di loro si tratta di un impegno a tempo pieno.
E i volontari individuali? Per loro quattro profili tipo: “Quelli che… danno una mano” (il gruppo più numeroso 34,2%) e che rappresentano la “filiera corta” dell’attivazione delle reti di prossimità; “quelle che… senza come si farebbe” (il 28,4% del volontari individuali) che offrono una relazione di aiuto duratura, l’attività di cura è svolta soprattutto da donne quasi 7 su 10 la fa per almeno 10 ore al mese mentre una su cinque per oltre 40 ore. Ci sono poi “quelli che… scelgono di fare da soli” (27,6%) laureati e professionisti impegnati con continuità, rispetto a chi opera per ambiente e cultura nelle organizzazioni dedicano minor tempo. Infine ci sono “quelli che… per donare vanno diritti all’ospedale” (9,9%).
Un capitolo del libro è intitolato “Far(si) del bene. Attività volontarie e benessere individuale” e dalla ricerca emerge che non solo la quantità del volontariato aumenta la qualità della vita, ma anche che le persone che fanno volontariato hanno una qualità della vita migliore. Sono più felici? «Il dato parte dalla percezione soggettiva della propria qualità della vita. Ma su questo occorre cautela: si rischia di cadere nel quesito “è nato prima l’uovo o la gallina”» spiega Fonović. «Chi fa volontariato si sente meglio con se stesso o chi si sente meglio con se stesso fa volontariato? È una domanda che è giusto continuare a farsi».
Il libro è ricco di dati e analisi che vanno dal tasso di fiducia interpersonale più alto nei volontari alle ricadute sulla partecipazione politica e la socializzazione dell’attività volontaria. Con chiarezza, infine, emerge che «per far crescere la solidarietà e l’impegno civico è di primaria importanza investire nell’educazione, nell’istruzione universitaria e nella cultura» concordano i curatori anche perché la ricerca attesta che non sono le risorse economiche la variabile determinante per accrescere le probabilità che una persona faccia volontariato, bensì le risorse socio-culturali.
di Antonietta Nembri – Fonte